Categorie: Architettura

architettura | Minihouses

di - 11 Ottobre 2006

E miniboom sia. L’alluvione mediatica è compiuta, il concetto brilla di luce pop. Concorsi d’idee, riviste di settore, sezioni “off” in biennali d’architettura e intere mostre d’arte contemporanea s’interrogano con frequenza stillicida sul tema del miniabitare. Come forma fisica di una praticabile filosofia del vivere.
Arte, design, architettura e utopie urbane si contaminano, generano immagini accattivanti, indicative di promettenti modelli di sociologia abitativa. Si aggiunge “float” ed è un proliferare patinato di piccole case da mandare in giro -e a memoria- rapidamente. Una serie di allegri object trouvé del vivere. Compatto, mobile, futuribile: dove i pesi sono minimi ma carichi di informazioni. Dove prende vita uno smart village globale in cui la parola miniarchitetture indica gli “abiti corporali” progettati da Jennie Pineus, le installazioni-denuncia di Lucy Orta, i luoghi monofunzione dell’olandese Dré Wapenaar, le unità-monomateriche di Erskine, le abitazioni economiche dell’architetto Tom Pyne.

Japanese DOP
Le minihouses realizzate in Giappone traducono i termini misura e levità. Mobili o rimovibili, fanno scuola nella snellezza compositiva di Waro Kishi, nelle sperimentazioni materiche di Shigeru Ban, nelle postazioni eteree di Osamu Ishiyama Laboratory. In lotti improbabili (fazzoletti di suolo con lati anche di soli due metri) progettisti avvezzi riescono in esercizi di mirabile “contorsionismo” architettonico, e come illusionisti del costruire creano, anche dove non vi sia spazio, un luogo. Eleganza e tecnica in pochi metri quadri le parole d’ordine.

Eppure alla corporeità occidentale, non avvezza dall’infanzia alla logica orientale fondante, cioè la piegatura (della carta, che non va tagliata; del futon, che va riposto; dell’alga intorno al sushi; del proprio corpo, che va continuamente inchinato in una gestualità non conflittiva) una casa commisurata al tatami può spesso apparire una elegante prigione, o al più un delizioso passatempo.

Logica Bach
Dimenticate le miniabitazioni, qui si parla piuttosto di unità massime per il tempo libero, e lusso understatement. Stanze di meraviglie, spazi dal design modaiolo in salsa di materiali innovativi sono il buen retiro della classe “bach”. Cioè di chi esce fuori porta ogni fine settimana, godendosi il comfort di un’abitazione extralusso nello spazio d’un capanno. Il termine bach nasce in area neozelandese, e l’australiano Sean Godsell riesce ad addensarne la logica spaziando dalla progettazione per veri ricchi (Weekend House) a quella dai contenuti sociali (Future Shack). Forse però è merito del Cabanòn se i picchi creativi dello spartito bach sono europei: dal Loftcube di Werner Aisslinger all’Exponor House di Cannatà e Fernandes. Piccole case crescono e si fanno notare.

Few mobile meter
Non per stupire ma per far vivere, sono le prime vere minicase. Quelle per i disastrati da Katrina, dalle guerre e dai terremoti, quelle per gli stanziamenti nomadi o per i barrios sudamericani (interessanti gli studi di F.A.D.U a Buenos Aires), quelle per chi dovrebbe poter scappare in fretta dalle pendici d’un vulcano o doverci vivere (Spin+, U.F.O office).Sono le Hope.house, i beaucontainer delle Rocio Romero e dei Greg Lynn, le paperhouse di Rural Studio. Prima del segno poetico, per veri, involontari Robinson Crusoe.

link correlati
www.loftcube.net
www.archi.fr/minimaousse
www.cannatafernandes.com
www.tezuka-arch.com
www.rocioromero.com

pamela larocca

[exibart]

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