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A chi dice che l’architettura è morta. La lezione della Biennale di Venezia 2023
Architettura
In questi primi giorni di vernice della 18 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia si registra un curioso rumore di fondo prodotto dai soliti Soloni del web e da qualche accademico italico che, indispettiti, s’interrogano sulla presunta scomparsa dell’architettura in quella che è, indiscutibilmente, la più importante mostra di architettura del mondo. Si moltiplicano le affermazioni forti sulla morte del progetto e sul fatto che questa disciplina sia diventata un surrogato dell’arte contemporanea in occasioni pubbliche come queste. La stessa lamentela correva, due anni fa, riguardo l’edizione curata da Hashim Sarkis, che, curiosamente, aveva registrato il record di presenze nella storia delle Biennale di Architettura, complice la fine della pandemia, i maligni dicono, ma forse anche un necessario cambio di paradigma curatoriale.
Credo che sarebbe molto più interessante guardare a queste due ultime esperienze come a un paesaggio unico e inedito, che si collega idealmente all’edizione curata da Alejandro Aravena nel 2015, in cui, per la prima volta, si affrontò il radicale e necessario allargamento dell’orizzonte con una lettura consapevole e politica di quello che ormai si stava portando avanti in altre aree del mondo, lontane dall’asse Europa-Nord America-Giappone che aveva monopolizzato mostre, pubblicazioni e accademie negli ultimi decenni del secolo passato. Da quel momento, brillantemente intitolato “Reporting from the Front”, si era posta con chiarezza la questione della dimensione politica e sociale del progetto oltre a una visione novecentesca il cui lo stile e le buone forme sembravano essere l’unica prospettiva culturale possibile.
“Laboratory of the Future”, curata da Lesley Lokko e aperta in questi giorni, tenta di forzare ulteriormente questa prospettiva e lo fa usando l’Africa come paradigma di una condizione apparentemente laterale, sconosciuta ai più al di là dei soliti luoghi comuni, ma che, invece, potrebbe avere la forza di farci interrogare su come, il continente più antico e insieme più giovane del mondo, stia confrontandosi con tutta la sua forza e contraddizioni, alle grandi sfide che il presente ci pone, partendo dal cambio climatico, fino alla necessità di una equità sociale ed economica sempre più assente.
La domanda che sorgeva con l’edizione di Aravena, che venne sollevata con ancora maggiore forza nel lavoro di Sarkis, e che si ripropone in maniera ancora più chiara con la mostra appena aperta, è sul ruolo e la capacità dell’architettura di poter affrontare sfide che sembrano superiori alle sue reali possibilità. È vero che il mondo delle costruzioni pesa almeno il 30% delle emissioni globali e che è uno degli attori principali di consumo di suolo e di risorse, ma è altrettanto illusorio pensare che l’architettura, da sola, possa dare risposte risolutive. La condizione di rete e intersezione tra le discipline è propria del nostro tempo ed è la risposta all’isolamento individuale e culturale in cui i nostri saperi erano stati incatenati nel 900’. Questa condizione di partenza giustifica il fatto che il progetto, da solo, non possa più produrre manufatti di senso sociale e simbolico se non si nutre di un confronto concettuale e poetico con altri mondi e conoscenze che lo possano traghettare in un tempo di profonda e drammatica metamorfosi.
Coloro che ancora invocano la ricerca di un nuovo stile s’illudono e sono figli malinconici di un tempo superato, mentre questa Biennale dovrebbe aiutare a interrogarci sul ruolo che la forma, come potenziale reagente poetico verso la realtà, potrebbe ancora avere per produrre luoghi e manufatti da abitare in maniera differente per affrontare un futuro presente carico di paure e interrogativi urgenti. Per questa ragione la mostra della Lokko non è risolutiva né rassicurante, non ci porta soluzioni né indica autori capaci di produrre opere che svoltino questo tempo confuso e in crisi. Si tratta di una scelta consapevole, dichiarata dalla prima frase posta all’ingresso del padiglione centrale dei Giardini, che introduce a una Mostra che non vuole educare quanto, piuttosto, accogliere prospettive, ricerche, sperimentazioni e punti di vista aperti e generazionalmente differenti.
Il nostro compito è quello di bonificare i terreni inquinati dal secolo precedente di una modernità titanica e feroce, per consegnare un suolo libero perché le prossime generazioni impiantino semi generati da un pensiero diverso, che ancora ha da venire. Senza la bonifica non esistono semina e nuovi raccolti.
Forse una Biennale, oggi, deve essere un laboratorio poetico e problematico che generi interrogativi e apra a mondi differenti, piuttosto che offrire progetti e risposte granitiche pronte a sfaldarsi alla prima tempesta. Questa è una mostra curata e voluta da una intellettuale e una educatrice dell’architettura, che crede nella forza del pensiero e delle parole come punto di ripartenza. Questo diventa il punto di maggiore forza e, forse, di fragilità consapevole di questa edizione in cui la prospettiva politica sulla realtà ha preso il sopravvento e ha indirizzato chiaramente la selezione degli autori e autrici, evitando ogni confine di senso tematico e di scala come era stato per l’edizione precedente.
Questa mostra pone seriamente il ruolo e il senso della forma, che per l’architettura è centrale, perché la forma costruita diventerà luogo abitato da generazioni differenti nei decenni a venire, incidendo pesantemente sulla qualità della nostra vita. Ma lavorare sulla produzione di forme oggi vuole dire necessariamente confrontarsi con il contenimento del consumo di suolo e risorse, oltre che su luoghi che siano sempre più aperti, generosi e flessibili per un tempo inquieto e fluido nei desideri prodotti dalle sue comunità. Invece la relazione tra forma e astrazione è ancora oggi fortissimo e ci offre una fragilità concettuale che disorienta, ma che è anche specchio della cultura architettonica contemporanea, polarizzata tra un pensiero teorico sempre più debole e il mercato che detta regole e tempi delle reali occasioni di trasformazione.
Questa mostra solleva sottilmente il tema della debolezza dell’autore in un mondo sempre più performante, tecnicizzato e dai tempi eccessivamente compressi. Che spazio e occasioni esistano per progettisti che accendano un vero corpo a corpo sensuale e visionario con il lavoro di architettura nel presente?
Non è un caso che la Lokko abbia selezionato alcuni tra gli autori resistenti e dal talento unico come David Adjaye, i giovani AMAA, Flores i Pratts, ZAO, Atelier Masomi, Ibrahim Mahama, Hood Design Studio, immersi in una geografia irregolare di giovani “practitioners”, ovvero di mediatori sociali e culturali, sorta di civil servant contemporanei il cui ruolo è quello d’individuare nuove strategie e pratiche progettuali capaci di confrontarsi con un tempo nuovo e inquieto che chiede soluzioni altre, inclusive e capaci di costruire comunità attive tra i viventi. A chi si lamenta dell’assenza di architettura ricordo la frase di Hans Hollein che “tutto è progetto” perché ogni spazio e manufatto pensato che accogliere la nostra vita è stato immaginato, prodotto e ha la capacità d’influenzare la nostra vita.
Oggi il tema è quello di rigenerare e ripensare l’immenso patrimonio costruito che abbiamo ereditato dai due secoli precedenti. Oltre a questo l’appello alla de-colonizzazione che emerge con tanta forza in questa Biennale indica una vera bonifica ideologica di molto luoghi perché tornino liberati nel nostro presente. Una buona architettura sopravvive alla sua funzione originaria e il lavoro di Alessandro Petti e Sandi Hilal sul ripensamento attivo e critico del patrimonio fascista in Somalia, che oggi ha giustamente vinto il Leone d’Oro, è una perfetta metafora di questa visione del mondo che verrà. Questa mostra porta al centro il progetto come pratica poetica e sociale, sta forse a noi riflettere su che ruolo vogliamo abbia l’architettura nei prossimi anni: specchio di una pericolosa nostalgia modernista o motore di una rinascita necessaria dei nostri paesaggi?
A chi dice che l’architettura è morta. La lezione della Biennale di Venezia 2023
…..Una buona architettura sopravvive alla sua funzione originaria e il lavoro di Alessandro Petti e Sandi Hilal sul ripensamento attivo e critico del patrimonio fascista in Somalia, che oggi ha giustamente vinto il Leone d’Oro, è una perfetta metafora di questa visione del mondo che verrà. Questa mostra porta al centro il progetto come pratica poetica e sociale, sta forse a noi riflettere su che ruolo vogliamo abbia l’architettura nei prossimi anni: specchio di una pericolosa nostalgia modernista o motore di una rinascita necessaria dei nostri paesaggi?…I
in questo pensiero c’è tutta l’architettura 2023 ??