Sorprende il Padiglione Italia, proseguimento fisiologico dell’allestimento-summa imbandito all’Arsenale. Dribbla con un certo stile la vexata quaestio relativa alla mancanza di un padiglione nazionale italiano (se si esclude il padiglione Venezia, quest’anno, tra l’altro, impegnato in una mostra storica dalle premesse piuttosto discutibili) ed ovvia alla sensazione di atavica stanchezza che assale dopo un’infilata mastodontica di progetti e maquette: ci riesce –e non è poco- mischiando abbastanza abilmente gli ingredienti.
Da un lato l’architettura fotografata (Morphing Lights, Floating Shadows, a cura di Nanni Baltzer), dall’altro Notizie dall’interno (a cura di Mirko Zardini, ouverture, non del tutto riuscita, sulla situazione dell’interior in Italia), in mezzo due interventi d’autore, quello del Leone d’Oro Peter Eisenmann e quello di Massimo Scolari, poi le Concert Hall, sezione più ligia ai suoi doveri, ma sicuramente vibrante.
A questo insieme già variegato s’aggiungono due omaggi, uno dedicato a Ivan Leonidov, l’altro per il nostro Eladio Dieste: due sezioni ovviamente in ombra nel mare magnum della Biennale, ma su cui vale la pena di soffermarsi. Vuoi perché si tratta di due personaggi (ingiustamente) poco noti (e non solo al grande pubblico), vuoi perché in tema di metamorfosi, sia il russo che l’italiano avevano visto lungo, e in tempi non sospetti. Leonidov visionario che non costruì poi così tanto, ha lasciato un’eredità di immagini che sono vere e proprie icone della modernità, per carica utopica e forza icastica. Dieste creò mirabolanti sistemi di volte, superfici e coperture curvate utilizzando sempre e solo mattoni, con la perizia e l’ostinazione di un maestro comacino contemporaneo: tra virtuosismo e capacità di adattare ogni volta materiale e tecnica antica con l’innovazione tecnologica.
Episodi ed intermezzi spettacolari sono gli interventi di Scolari ed Eisenmann. Il primo sfodera una buona dose di compiaciuta retorica che alla lunga gli si ritorce contro: se il fulmine sul tetto del Padiglione mischia postmodern e nichilismo, la torre di Babele a pezzi, apparato scenografico d’impatto notevole, ma un po’ cialtrone, più che colpire infastidisce. Così è Eisenmann a fare, letteralmente, la parte del leone: e l’installazione funziona come un ingranaggio. Praticamente perfetto, tarato a puntino. Semplice –apparentemente- quanto basta, magari tacciabile di una certa furberia, eppure carica di un intreccio possente di riferimenti storici ed estetici: un percorso che taglia trasversalmente la storia dell’architettura, da Palladio a Piranesi, a Terragni, fino alle forme che hanno reso inconfondibile lo stesso architetto americano.
Rampe, pareti, scale, colonne: il punto di partenza sono una serie di diagrammi incastrati l’uno nell’altro come in un gioco di scatole cinesi, il risultato è un riassunto-repertorio, a metà tra viaggio nel tempo e visione simultanea. Dichiarazione d’amore, pure, verso i linguaggi del costruire, con cui Eisenmann gioca, con il piglio smaliziato di chi ormai ha visto (e fatto) molto. Così, scandendo gli spazi placidi di Palladio, evocando d’un tratto le carceri d’invenzione di Piranesi, o il rigore della Casa del Fascio di Terragni, l’architetto innesta strutture, insegue e sorpassa la storia, ammette tutto e tutto insieme in una dimensione che è solo presente. Lo avevamo già visto, è vero. Eppure è affascinante. Episodio isolato di rara compattezza, nato sovrapponendo ed intersecando volumi e superfici. Ma soprattutto –ed è qui che alla fine conquista- visioni.
prima foto: Centr Sovremennoj Architektury –Ivan Leonidov The City of the Sun
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