Una città monolitica, immobile e sprofondata in un mare grigio pietra, ospita la nona edizione della Biennale di Architettura dedicata alla Metamorfosi. Dedita al restauro ed alla conservazione, Venezia ospita miriadi di giornalisti e turisti stivati su vaporetti alla deriva tra musei, ristoranti, chiese e parcheggi. Lontano dal labirintico ingorgo di calli, ponti, poli e fondamenta, su un’isola lontana, i cugini ricchi del cinema si celebrano all’ombra di una scenografia imperiale costata quanto probabilmente la ristrutturazione mancata dei Giardini, affascinante simbolo delle architettoniche contraddizioni del Bel Paese e luogo dedicato all’estetica della rovina in funzione di eccentrico approdo per gli ultimi avamposti dell’architettura futura mondiale.
In questa città inabissata, alle prese con il MOSE che verrà (non apprezzato da tutti i veneziani, alcuni dei quali solcano il Canal Grande per manifestare, qui si fa tutto sull’acqua), il direttore Kurt Forster ha invitato 170 studi di architettura con 200 progetti divisi in otto sezioni per mostrare un’idea di cambiamento radicale nell’architettura odierna. La metamorfosi è trasformazione, non semplice evoluzione; la crisalide non ha nulla della farfalla che sarà. Così Le Corbusier o Mies Van Der Rohe sono lontani da un Gehry o un Liebeskind. Nel tecnomondo in cui ci troviamo gettati, la tecnologia ha aperto il proprio spazio ontologico, un dominio sconosciuto in cui lo spazio ed il tempo reali divengono virtuali e le forme virtuali si realizzano come edifici sorprendenti, eccentrici esempi di idiomi personali più vicini alle libertà dell’arte che alla regolarità della geometria. Se Frank O. Gehry e Peter Eisenman -al quale va il Leone d’Oro alla Carriera- sono indicati da Fortser come gli architetti della svolta, dopo Aldo Rossi e James Stirling, la generazione successiva dei Daniel Liebeskind e delle Zaha Hadid presenta un’architettura fluidificatasi in algoritmiche visioni e dinamismi strutturali che obbligano la città intera a ripensarsi.
I cambiamenti sociali in atto, segnati da fenomeni coma il turismo last minute di massa, il lavoro flessibile, la liberazione del tempo pro capite, l’aumento dei consumi o e della domanda di intrattenimento, stanno influenzando l’identità dei luoghi pubblici, punte di diamante di un’architettura dell’intrattenimento che lascia l’80% degli edifici senza architettura a favore di costruzioni legate al mondo della cultura. I musei, i nuovi luoghi del sacro ai quali vengono destinate economie di scala e progetti faraonici, sono affiancati da 40 sale da concerto, segno che la musica ha un ruolo centrale nella vita metropolitana e che gli architetti le considerano banchi di sperimentazione ideali.
L’attenzione di chi progetta si sposta dalle abitazioni ai luoghi della vita associata, mentre la città tende a svanire sotto l’aumento vertiginoso di nodi ed arterie di comunicazione che l’architettura sogna di occultare nel sottosuolo, sotto parchi e laghi artificiali.
Fame di spazio
La fame di spazio, bene evidente nel padiglione olandese, sta determinando un assalto all’acqua che si afferma come necessità vitale nel Padiglione d’Israele e realtà diffusa, come si vede nella mostra curata da Rinio Bruttomesso, Metamorfosi delle città d’acqua, che ospita nel padiglione fluttuante delle Artiglierie decine di nuovi progetti di riqualificazione degli spazi d’acqua di città come la Genova di Renzo Piano, la Trieste dell’Expo 2008 e le tre città premiate dalla Regione Venezia: la Bilbao della deindustrializzazione, la Buenos Aires che recupera il proprio antico porto e la Seoul che sventra il cemento per riscoprire un fiume occultato. A questi si affiancano progetti più avveniristici, come la città nella città riunita sulle sponde di un lago artificiale per Shangai. L’intenzione sembra essere quella di gestire l’acqua come se fosse terra ferma, progettando su di essa vie di comunicazione o quartieri galleggianti, avamposti di una futura colonizzazione dello spazio fluido, di una sua solidificazione che i componenti del gruppo Multiplicity, purtroppo assente, stanno da tempo teorizzando.
Ma il tema fondamentale secondo Kurt Forster è la “rincorsa al vivente” da parte di un’architettura che ha come modello l’organismo ed impernia sulla luce, la trasparenza e la leggerezza il suo “nuovo ruolo, catalizzare grandi esperienze sociali e culturali a scala internazionale”.
Si delinea un nuovo stile internazionale segnato dalla lezione del Guggenheim di Bilbao di Frank O. Gehry, di un edificio capace di trasformare (la metamorfosi è evidente) una massiccia città industriale in eccentrica meta turistica, creando epigoni che aderiscono ad un’architettura scultorea, rivolta più al “visitatore” che all’“abitatore”, piacevole ed inappropriabile, aperta verso una bellezza asimmetrica: un’architettura non esclusiva ma inclusiva, a suo modo popolare, che costruisce ornamenti per la città e li offre come lusso (Hadid) riscoprendo la stendaliana bellezza come “promessa di felicità” di un nuovo eden urbano.
Forster ci mostra questa nuova frontiera dall’architettura neo-ecologica, neo-post-moderna, radicalchic, con un rigido decalogo improntato allo sfruttamento intelligente, alla valorizzazione del paesaggio e dei waterfront, motore di un nuovo stile internazionale biomorfico, amichevole, orientato verso l’equilibrio tra uomo e ambiente, organicistico, decostruttivo, anti-simbolico, neo-post-strutturalista, asimmetrico, creativo, modaiolo, scultoreo, genialmente arbitrario, deideologizzato, stupefacente, eccentrico. Un’architettura che ci fa riscoprire lo spazio, la sua insospettata capacità di assecondare le forme più improbabili, di piegarsi, fluidificarsi, torcersi per mostrarci la sua assurdità di fondo, il suo paradosso, come avviene in un disegno di Escher o nel nodo di Moebius usato da Eisenman per modellare la sua Max Reinhardt House. Uno spazio che può anche sfogliarsi, accartocciarsi, modellarsi sotto la spinta del soffio vitale dell’artista, come nella Disney Concert Hall di Gehry a Los Angeles.
E’ lo spazio ventoso, biomorfo, trasparente, sfilzante di molti studi radicati nelle capitali del mondo, ma è soprattutto lo spazio algoritmico della macchina calcolatrice che ha sede ovunque. Questo rende realizzabile lo spazio virtuale e segna una conversione dell’architettura all’arte: niente più regola al disegno, ogni schizzo può diventare un mastodonte con decine di funzioni vitali, essere piantato in centro città e divenire attrazione, modello per l’esplosione planetaria di forme. Architettura artistica che progetta luoghi per “sognare”. L’arte, la musica, la ricerca scientifica, il viaggio, la letteratura fanno parte di una ritualità massificata e quotidiana che l’architettura nuova deve esaltare, creando luoghi all’altezza della funzione e dei risvolti simbolici, antropologici e sociali risonanti in un mondo a bassa densità ideologica che preferisce pensare un edificio per volta, abbandonando la progettazione della città ideale.
In tal modo l’edificio diviene opera e la città si trasforma in museo, sede di eventi architettonici in grado di agire sulla comunicazione di massa imprimendosi nell’immaginario collettivo attraverso un’esperienza che non è diretta (la maggior parte di noi conosce il museo solo dalle foto degli esterni) ma è mutuata dalla fotografia.
Non per nulla Nanni Baltzer ha curato una sezione (frammentata nei vari spazi della mostra) dedicata all’architettura fotografata, alle sue inedite atmosfere, immagini bidimenzionali che usano il mezzo sofisticato e mistificante della fotografia per corrispondere ad una architettura molto personalizzata (anche se Eisenman nel discorso di premiazione rivela di non essere è “un individuo, ma un insieme di amici e colleghi”) e dai risvolti pubblicitari che nutrono un proprio star system.
Grado zero
Lo spazio architettonico odierno, che un tempo rispondeva a visioni ideologiche oggi reagisce all’attualità, come il nuovo Ground Zero di Daniel Liebeskind, che lo reputa “il simbolo della nuova America, la risposta culturale al terrorismo ed alla sua offensiva contro la democrazia e la libertà”. L’architettura presente in mostra si preoccupa di fornire un’esperienza eccentrica nel quotidiano, una simbologia che non ha ancora, secondo Joseph Rikwert, impostato una monumentalità del positivo, restando memoriale delle comunità delle vittime.
Questa architettura deideologizzata, orfana di Loos e Le Corbusier, giocosa, gioiosa, festosa, raffinata, elegante e raffreddata, tipica di un ripiegamento manieristico, è debitrice alle tecnologie che resettano la storia per riavviarla secondo principi e linee guida in stato di metamorfosi. Forse dobbiamo abituarci ad una metamorfosi continua? Così sembra pensare Forster quando alla domanda su quale tipo di città prefigura questa architettura si limita a dire: “non c’è un fine nello sviluppo della città, ma solo una serie di tappe di trasformazione”. Un giorno, quando ogni città ospiterà molti di questi progetti, forse ci parrà (come dice Gregotti della Fiera di Milano) di vivere in una fiera degli orrori, ma non potremo fare a meno di vedere ovunque la forza immaginifica dell’architetto, la sua energia pulsionale che, avvalendosi delle protesi offertegli dalle macchine di calcolo e dalle tecnologie dei materiali, trasformerà uno schizzo, un’intuizione visiva, in mastodonte la cui vita dovrà rispondere alla questione principale dell’architettura di sempre: sarà durevole la sua bellezza?.
L’antropologo Franco Lacecla, che collabora con Renzo Piano, ha fatto notare che il centro dedicato alla cultura Kanak di Piano non ha attecchito.
La capacità di vivere i mutamenti odierni, di assimilare nuovi materiali, tracciare innovativi effetti atmosferici, segna l’architettura odierna. Ma l’architettura è strumento e non fine; il suo lavoro deve essere quello di rendere abitabile il mondo contemporaneo. Il salto quantico imposto dalla tecnologia digitale è disorientante e l’architettura deve mediare la nostra essenza umana con il futuro in arrivo alla velocità “disumana” delle macchine, dalle quali dipende ormai il nostro sistema mondo. Il Millennium Bug è passato da poco, ma resta significativo. Forse è anche per questo motivo, oltre che per la disponibilità di materiali reattivi, che l’architettura sta assumendo l’organismo come paradigma, cambiando la propria natura e superando “l’era vitruviana” e la sua ispirazione scheletrica, rigida, strutturale.
Il nuovo stile internazionale, inteso come nuova “civiltà della forma” transanzionale e cosmopolita, avrà anche il compito, secondo Forster, di pacificare e di far incontrare latitudini e longitudini lontane. Impresa non facile, visto che l’anti-architettura di Baghdad sta offrendo lo spazio reale ad un conflitto che rischia di trasformarsi repentinamente in scontro di civiltà, il quale abiterebbe uno spazio metafisico, e religioso, sul cui anche la nuova architettura potrebbe avere difficoltà a edificare.
nicola davide angerame
Curata da Stefano Raimondi, MOCKUPAINT di Oscar Giaconia al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone rimarrà aperta fino al 26 gennaio…
Il 2024 l'ha dimostrato, l'architettura roboante e instagrammabile è giunta al capolinea. Forse è giunto il momento di affinare lo…
Caterina Frongia, Millim Studio, Flaminia Veronesi e Anastasiya Parvanova sono le protagoniste della narrazione al femminile in corso presso Spazio…
Sei consigli (+1) di letture manga da recuperare prima della fine dell'anno, tra storie d'azione, d'amore, intimità e crescita personale.…
Aperte fino al 2 febbraio 2025 le iscrizioni per la sesta edizione di TMN, la scuola di performance diretta dall’artista…
Fino al 2 giugno 2025 il Forte di Bard dedica una mostra a Emilio Vedova, maestro indiscusso della pittura italiana…
Visualizza commenti
"Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone confidano nella propria capacità di riconoscere le stronzate ed evitare di farsi fregare. Così il fenomeno non ha attirato molto interesse, né ha suscitato indagini approfondite. Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro", da "On Bullshit", un saggio filosofico di Harry G. Frankfurt.