Può sembrare paradossale, ma fuori dalle consuetudini dell’Occidente può avvenire che una città senza architettura, come Kinshasa, si faccia emblema di una specificità non assimilabile agli schemi urbanistici della mondializzazione. L’indagine sulla capitale dell’ex Congo belga, che ha garantito il Leone d’Oro al padiglione del Belgio, ne è un mirabile esempio. Qui l’analisi proposta dall’antropologo Filip De Boeck, in collaborazione con la fotografa Marie-Françoise Plissart, mostra una megalopoli organizzata in modo spontaneo, incentrata su di un potente immaginario collettivo e nutrita degli avanzi di una modernità d’importazione.
Video, fotografie, interviste ed un libro (di Filip De Boeck, Kinshasa. Tales of the Invisible City, Ludion 2004) servono a narrare l’identità di una città post-coloniale africana come tante, che dopo l’indipendenza è precipitata in conflitti, etnici e politici, finalizzati al controllo delle risorse.
Ciò ne ha impedito lo sviluppo, ma non la crescita. L’architettura, intesa come arte della costruzione, è stata sostituita da una nuova estetica, segnata dalla decadenza degli spazi urbani e dalla sape: la progettazione architettonica del corpo attraverso il body-building e la danza. Kinshasa non è costruita con vetro, acciaio e cemento, ma con muscoli, sudore e superstizioni, dentro una temporalità apocalittica affermata da una religione che annuncia la fine del mondo. La megalopoli è in realtà un megavillaggio organizzato intorno ad un immaginario collettivo portentoso, dove “l’unità infrastrutturale primaria è il corpo umano”. Lo spazio mentale condiviso si nutre di credenze animiste, di teleprediche, di tele-esorcismi e del commercio delle indulgenze chiamate icasticamente “sementi”. “La gente – dice De Boeck – semina gioielli, macchine e case per ottenere un miracolo, un lavoro, una guarigione o un biglietto per il paradiso”.
Antenne televisive usate come stendipanni, carcasse d’auto cannibalizzate e lasciate in strada come sculture d’arte povera sono alcune immagini di un paesaggio fatto di cimiteri, discariche e tetti in lamiera, sotto i quali arrancano stanchi mercati privi di ogni bene. Le abitazioni coloniali somigliano alle vicine baracche ed i muri imbiancati dei negozi gestiti dalle “Chiese del risveglio”, attraggono l’attenzione con slogan come: “tu dai a Dio e Dio darà a te”. Eppure la città continua a vivere.
Le soap opera nigeriane, la paura dei morti viventi o i bambini stregati, esorcizzati e respinti in strada dalle proprie famiglie, rappresentano alcuni dei fenomeni quotidiani di massa di una città in cui la vita si intreccia con la morte. Il suo respiro è quello asfissiato del fiume Congo, sulle cui sponde si erge un’architettura fantastica, dove le navi sono trasformate in baraccopoli ed i mercati sfruttano i nuovi straordinari ibridi della tecnologia del rifiuto. Patchwork ancora miracolosamente funzionanti, avanzi di una civiltà scomparsa, fagocitata dalla nuova ed antica architettura, senza architettura sulla quale poggia la vita di una città con sei oppure otto milioni di abitanti. E questo, nessuno lo sapeva.
nicola davide angerame
mostra visitata il 21 settembre 2004
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