Categorie: Architettura

architettura_interviste | Go Civic

di - 20 Febbraio 2009
Una autopresentazione attraverso tre opere: una architettonica, una artistica e una letteraria
Andrea Stipa. La biblioteca di Hans Sharoun a Berlino, le Ninfee di Monet, Riti di passaggio di William Golding.

È da poco uscito il testo di Valerio Paolo Mosco sull’architettura americana West Coast ed è in uscita, sempre per Motta, Architettura Americana East Coast… Quanto l’esperienza americana influenza il vostro operare in italia?
AS. L’America mi ha insegnato a comprendere il valore delle mie radici culturali e allo stesso tempo a sentirmi libero di esprimere la mia prospettiva sul mondo senza obblighi morali nei confronti delle mie tradizioni.
Valerio Paolo Mosco. Sono sempre stato affascinato dalla cultura americana, spesso discriminata dagli intellettuali europei. In particolare, la mia permanenza negli Stati Uniti mi ha permesso di apprezzare l’architettura lì prodotta dagli anni ’50, nelle letture dei brevi saggi critici (in “Perspecta: The Yale Architectural Journal”, ad esempio) di Venturi, Kahn e Buckminster Fuller ho ritrovato una fucina dove al mestiere era affiancata una vasta trattatistica teorica. Ho apprezzato il loro riportare le questioni sull’architettura in maniera pragmatica, assolutamente antiplatonica, e mi sono ritrovato nell’affermazione di Charles Sanders Peirce: “Le cose non esistono se non nella loro trasposizione fenomenica”.

Parte della critica parla in questi ultimi anni di perdita d’identità da parte dell’architettura italiana. È una problematica ancora rilevante o la presunta perdita è causa dell’accettazione inevitabile di un operare globale?
AS. È una critica sterile e a mio avviso non necessaria. L’identità creativa esiste ma sarebbe più evidente se ci fossero maggiori occasioni di realizzare architetture e meno occasioni di realizzare abusi edilizi.
VPL. Il problema a mio avviso è mal posto. Il cruccio sull’identità sembra purtroppo bloccato su istanze di tipo iconologico.

Jean Nouvel afferma che “un architetto contemporaneo è colui che vive attento per catturare la realtà affinché la possa progettare e farla conoscere”. Come si cattura l’essenza della contemporaneità?

AS. Vivendo la vera essenza del proprio tempo senza volerla deformare per leggerla secondo le proprie aspettative. La nostra società dominata dall’iper-informazione ridondante è spesso incapace a descrivere la verità dei fatti. L’architettura riporta le azioni umane all’interno di una realtà storica incontrovertibile, ed è forse per questo che in Italia è ancora temuta dalla politica.
VPL
. Non ha senso parlare di contemporaneità. Cosa vuol dire essere architetti contemporanei? Nouvel è contemporaneo allo stesso modo di Rural Studio, pur operando in maniera completamente diversa. Il vero problema della contemporaneità è il valore del mestiere che sembra perdere sempre più peso. Il mestiere in architettura sarebbe lo strumento migliore per individuare i sintomi rintracciabili nello spirito del tempo.

Come l’architettura risponde alle reali esigenze dei loro fruitori?
AS. Non riesco a immaginare una ricetta specifica. Mi sembra essenziale che l’architettura unisca alle soluzioni funzionaliste l’unicità della percezione spaziale e dell’uso dei materiali.

Richiesta del bando era la necessità di rispondere a un tessuto sociale caratterizzato da una forte eterogeneità etnica e culturale. Come l’architettura può rispondere, attraverso i suoi strumenti, a queste problematiche?
AS. L’articolazione spaziale da noi proposta mira a coinvolgere i bambini e i genitori in una serie di attività differenti ma percepite come unitarie all’interno della didattica e nel libero uso degli spazi. La scuola inoltre è pensata come un edificio dal forte carattere domestico, dove ognuno può trovare il suo spazio privato e quello di socializzazione.

Come creare spazi per l’integrazione?

AS. Si potrebbe costruire una chiesa, una moschea e una sinagoga intorno a un campo da calcio!

Quali gli strumenti per la costruzione di nuove città?
AS. Purtroppo credo che non potremmo fare a meno del cemento e dell’asfalto, materiali peraltro nobili se usati con sapienza. Si potrà forse ripensare il modello di viabilità, introducendo un forte contrasto tra una superveloce, infrastrutturata, e una lenta e spontanea.

Come raggiungere l’equilibrio tra naturale e artificiale, tra esteno e interno?
AS. In natura anche una grotta viene percepita come uno spazio esterno. In una casa, un balcone a venti metri di altezza è percepito come uno spazio interno e a volte alienante. Forse non serve l’equilibrio, ma un’ibridazione della percezione spaziale per cui un interno possa essere percepito come uno spazio esterno e un esterno come uno spazio interno.

La natura: qualcosa da sottomettere e imbrigliare nella tradizionale visione occidentale; qualcosa con cui vivere in armonia secondo la filosofia e la cultura orientale. Dove deve cominciare e finire l’artificio dell’uomo?
AS. Purtroppo è pura utopia pensare che la natura sopravvivrà all’artificio. La natura sarà sempre più artificiale, ma forse sarà possibile rendere l’artificio sempre più naturale.

L’espressione individuale ha sempre significato originalità, coraggio delle proprie convinzioni (asserzioni), esplorazione di nuovi territori e la volontà di sacrificarsi per ciò in cui si crede… Su queste basi, quali compromessi l’architetto è disposto ad accettare, se vuole operare?

AS. L’architetto deve rispondere alla committenza. Se non vuole compromessi può sempre fare l’artista e rispondere solo alla sua coscienza, ma senza costruire. Costruire implica, in primo luogo, accettare di rispondere alle necessità della committenza, che sono principalmente di ordine funzionale. Ma il committente illuminato sa che il programma funzionale non può prescindere dal linguaggio e dalla prerogativa dell’architettura di definire spazi lavorando con la luce e con i materiali. Pertanto lavoriamo per evitare i compromessi!

Valerio Paolo Mosco, in un tuo contributo su “D’A” definisci sei crucci dell’architettura italiana: iconologico, teorico, tecnologico, ecologico-sociologico-situazionista, crisi della critica, ingegnerizzazione del progetto. Quale quello di cui pecchi maggiormente?
VPM. L’elaborazione di questi crucci nasce dalla lettura di un discorso di Philip Johnson del 1954 tenuto a Yale, in cui vengono messe a sistema le sue preoccupazioni in materia architettonica. Non esiste un unico cruccio di cui si può peccare, ma ogni sfida progettuale porta con sé tormenti sempre diversi. Sicuramente sono molto lontano dalle sperimentazioni architettoniche che partono dal basso, in relazione a presunte posizioni sociologiche.

Andrea, quale cruccio aggiungeresti?
AS. Ludico, istintivo.

Come vedi il futuro dell’architettura relazionata allo sviluppo di una filosofia basata sulle problematiche ecologiche e sociologiche?
AS. Metterla solo sul piano intellettuale mi sembra spaventoso! Sarà fondamentale dare una risposta ai problemi ecologici che il futuro ci prospetta, partendo dall’analisi concreta dei fatti e dalle previsioni proposte dalla scienza.

a cura di sante simone

[exibart]

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