Categorie: Architettura

architettura_interviste | L’uomo al centro

di - 24 Aprile 2010
Cosa vuol dire fare buona
architettura al giorno d’oggi?

Credo significhi rimettere l’uomo
al centro dei nostri pensieri, abbandonando quel cinismo speculativo che ha
caratterizzato in questi ultimi anni la fin troppo facile produzione
immaginifica di architetti e creativi in genere. L’ansia del costruire,
soprattutto in Italia, ha incoraggiato invece la prolificazione di approcci
sempre più ordinari e schiacciati sul mercato, seppur restituendo talvolta
esiti dal carattere ammiccante e superficiale. Ciò che conta è che
l’architettura sia il frutto di ricerca e sperimentazione, di innovazione,
oltre che una risposta tecnicamente pertinente. Una buona architettura deve tornare a
occuparsi di immaginari, di città e futuro: qualsiasi sia il mandato e la scala
dimensionale cui deve rispondere.

Ma in che modo?
Dovrebbe essere capace di produrre
utopie. Non come invito alla rivoluzione, bensì come indicazione alla
resistenza. Ho la netta sensazione, infatti, che gli sguardi di molti miei
colleghi architetti e designer siano oggi troppo volti verso quel nuovo padrone
che è la “mafia della comunicazione globale”, per dirla con Yona Friedman.
Che ci fa dimenticare che il nostro primo obiettivo rimane l’uomo e l’ambiente
in cui si muove e vive. E solamente in questo senso una buona architettura può
dirsi sostenibile.

Quali sono gli elementi
fondanti di un progetto urbanistico che sappia coniugare funzionalità e valori
estetici?

Penso che un buon progetto di
città debba essere fondamentalmente caratterizzato da una predominante idea
di città collettiva

per il futuro. È infatti intorno a una chiara visione di città pubblica che
ruota ogni giudizio e punto di vista sulla la qualità urbana. Siamo una società
complessa, dinamica e positivamente instabile, non in grado, fortunatamente, di
esprimere un pensiero estetico dominante. Un progetto urbanistico deve
assomigliare sempre più a un grande dispositivo in grado di orientare le
trasformazioni, senza che le scelte di fondo e di principio vengano
imprigionate entro schemi estetizzanti.

Come giudica la qualità di vita
delle nostre città? Quali le differenze rispetto ai contesti internazionali in
cui sta lavorando con Metrogramma?

L’assetto politico del sistema
Italia limita moltissimo un miglioramento sensibile degli standard generici di
qualità della vita. Tecnicamente i servizi delle realtà urbane, a tutte le
scale, potrebbero essere molto avanzati. Tuttavia le discussioni politiche,
tutte orientate all’interesse di breve termine, avvengono a un livello troppo
basso. A livello internazionale – mi riferisco ad esempio alla nostra
esperienza a New York o Detroit – esiste maggiormente la consapevolezza di una
visione che superi il dibattito politico specifico. A partire dal merito e dai
contenuti, e senza pregiudizi o dibattiti ideologici.


La passione per l’archistar sembra
irrefrenabile…

Il problema non è rivoluzionare un sistema che – in tutti i campi
– tende a spettacolarizzare l’espressione creativa. Bensì resistere all’assenza di senso, cioè a
progetti dai connotati esclusivamente commerciali e inconsistenti. A quale
architetto non piace la visibilità? Ma a quanti interessa realmente che questa
sia il frutto di comprovata stima scientifica e culturale? Questo è l’obiettivo
della critica. Ma esiste oggi giorno?

Se dovesse abbattere un
edificio e invece conservarne uno per sempre?

Non ne ho uno specifico. Più in
generale procederei invece verso una politica di rottamazione generalizzata per ciò che attiene estese parti
di città, anche densamente popolate, ma non in grado di rispondere a requisiti
minimi di qualità della vita in termini di servizi e igiene. Le nostre città
sopra i 500mila abitanti, per più del 30% sono caratterizzate da tessuti urbani
di questa natura. Mi sta nel cuore invece – e proporrei per questo una politica
urgente di recupero consapevole – l’enorme patrimonio architettonico realizzato nel
periodo moderno del secolo scorso. Un patrimonio oggi spesso irriconoscibile e
lasciato a un inesorabile degrado. E purtroppo in Italia si tende a non operare
una distinzione chiara tra ciò che è da salvaguardare e ciò che invece può
essere tranquillamente sostituito con opere di nuova concezione…


Come giudica l’architettura dei
musei d’arte contemporanea costruiti in Italia negli ultimi anni? Mi riferisco
a Macro, Maxxi, Museion, ma anche al Pecci o al Mart…

Non particolarmente interessante,
ma neppure cattiva. Ciò che giudico male è la politica che ci sta dietro,
colpevolmente tardiva rispetto al resto del mondo. In Italia si stanno facendo
o concludendo i musei oggi, mentre nel resto del mondo si sta già mettendo in
discussione l’efficacia di tale politica: la riflessione in corso riguarda
infatti il futuro dell’arte contemporanea, una volta superato il concetto
classico di spazio espositivo-museale. Realtà e cultura dell’arte dovrebbero
reinventare il concetto stesso di luogo espositivo, a favore di nuove forme
d’esperienza e d’incontro!


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25 aprile 2010 – ore 11
Gianluca Peluffo, Andrea Boschetti,
Matteo Gatto, Ezio Micelli, Marco Alfieri

Quando la società sviluppa
valore con l’Architettura

Istituto Dante Alighieri

Via Tommaseo, 10
31010 Vittorio Veneto (TV)
Ingresso libero

Info: tel. +39 3203666760; info@centrostudiusine.it;
www.festivaldellecittaimpresa.it



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