2. Mostri architettonici, balli in costume, castelli umani
When buildings attack. Nel 2004, sulla rivista-libro Content, Rem Koolhaas presenta i suoi nuovi supereroi. Sono dei mostri che si trovano come virus in buona parte delle immagini presenti nel libro; qualcuno riesce a capire prima di arrivare all’ultima pagina -quando i mostri sono presentati con nome, cognome e luogo di nascita- che questi esseri non sono altro che i recenti edifici partoriti dallo studio OMA, sintetizzati in quella che definiamo un’icona. Queste icone sono costruite a partire dalla sagoma esterna dell’edificio, disegnando i loro limiti esterni come si trattassero di ombre: vengono poi aggiunti mani, piedi e occhi.
Mi chiedevo il perché di queste creature. Magari una questione di marketing, come suggerito in alcune immagini di Content: rendere gli edifici delle figure iconiche per poi creare un indotto commerciale (le magliette, il cappellino, la nuova fragranza AMO-OMA). D’altronde Koolhaas ci ricordava già anni fa, nel suo libro Delirious New York, di architetture con mani e piedi: “Fête Moderne: una fantasia di colori accesi e argentei”, 23 gennaio 1931, il ballo dove gli architetti di Manhattan si presentarono travestiti da grattacieli.
Pochi anni prima, nel 1926, è Oskar Schlemmer a progettare costumi per ballerini, nel Balletto Triadico. Non è il ritrovo Beaux-Arts, come a New York, ma il Bauhaus di Dessau: la ricerca di un’opera d’arte totale, l’architettura che permea qualsiasi interstizio della vita umana. Non c’è marketing nel Bauhaus, bensì un sincero sforzo di non concedere nulla al caso, il tentativo dell’uomo-dio di non lasciare nelle mani di altri la propria esistenza. L’architettura, che costituisce l’elemento più rilevante nella vita delle persone (modificando lo spazio attorno a esse), diviene la base di partenza per lanciarsi verso tutto ciò che può influenzare ancora il comportamento umano: l’arte, il design di oggetti, l’artigianato, i divertimenti.
Un’architettura umana, quindi. Ancora indietro nel tempo: nella seconda metà del Quattrocento, Francesco Di Giorgio Martini disegna un castello al di sopra di una figura umana: pone un torrione sul capo, una chiesa sul petto, in corrispondenza del cuore, dei baluardi difensivi ai piedi e ai gomiti. L’Umanesimo ha inizio: l’uomo al centro dell’universo, l’uomo come macchina ideale che costruisce architettura perfetta riproducendo le sue stesse proporzioni. Ciò che c’interessa, però, è che oggi i disegni di Di Giorgio sono esempi di immediata comunicazione architettonica, una comunicazione non superficiale ma, piuttosto, piena di rimandi culturali e popolari. Una specie di lezione, sfruttando il concetto di umanizzazione dell’architettura, uno dei metodi più diretti per spiegare l’architettura stessa.
I disegni di Di Giorgio, gli abiti del Bauhaus, i mostri di Koolhaas espongono concetti diversissimi fra loro, eppure usano lo stesso medium della semplificazione grafica, dell’architettura umanizzata in forma d’icona. Ciò che lega questo tipo d’immagini è il loro emergere in periodi di forte predominanza dell’individuo, come durante l’Umanesimo o nel razionalismo post-Nietzsche o, ancora, attualmente, nel mondo pubblicitario delle telecomunicazioni.
3. Prêt-à-porter architettonico
I mostri di Koolhaas sono dunque tentativi di umanizzare l’architettura, di avvicinarsi ai profani? Sono supporti di una progettazione totalizzante? O frammenti di un’opera che concepisce un mondo misurabile, che rende lo spazio amichevole, a misura delle proporzioni umane? Probabilmente nulla di tutto ciò, come si può evincere da uno scritto presente in Content, 12 reasons to get back into shape, scritto da R.E. Somol.
Un gioco di parole: 12 ragioni per tornare in forma (da shape, forma, figura, ombra). Una serie di aggettivi descrivono perché parlare di forma non sia più proibito, come lo è stato fino a oggi, forse in risposta all’abbuffata di figure che è stata l’architettura postmoderna. La forma è facile, adattabile, intensiva, è cool, è, soprattutto, grafica.
È abbastanza sorprendente leggere questa parola in un libro di Rem Koolhaas, colui che costruiva i suoi edifici senza discontinuità tra il diagramma funzionale e lo spazio. Invece, ora pare che esista qualcosa che divide i due ambiti. È la forma. È esattamente quello che sta succedendo all’architettura da alcuni anni: il rifiuto della cinestesia, la perdita di tutti i sensi, a parte la vista.
Allora non è arte totale, non è l’avvicinamento dell’architettura ai profani, non è l’uomo che sta al centro dell’universo. È la forma, anzi la silhouette, che definisce i mostri: è l’involucro a fare da padrone, un involucro vuoto, non più spaziale. L’architettura deve essere appetibile, riconoscibile, attuare come figura, come semplice intermediario fra lo spazio e le persone immerse in esso.
Come un abito firmato.
Ecco il perché delle forme umane. È l’architettura che deve calzare a pennello. La moda, però, non è architettura: il suo compito è costruire una forma attorno al corpo, disinteressandosi della modifica spaziale che l’abito può definire nel vuoto circostante la persona (ben diverso quindi dagli abiti di Schlemmer, che partivano dall’architettura per arrivare al corpo umano). Il disegno di un vestito è finalizzato a sottolineare, dare o togliere importanza a specifiche caratteristiche anatomiche.
Buona parte dell’architettura attuale ha così spostato il proprio bersaglio, concentrandosi sugli stessi temi che la moda esplora, in particolare la progettazione di un rivestimento attorno all’anatomia dell’edificio, alle sue funzioni, dando a queste ciò che il pubblico si aspetta: una forma, che sia poi la più spendibile successivamente in termini grafici. Si è cercato di ricorrere al sistema usato dagli stilisti, che si basa sulla riconoscibilità.
L’icona architettonica, definita dalla forma dell’involucro, è il bersaglio verso cui si punta, accantonando la ricerca spaziale, che è un tema difficilmente controllabile, anche attraverso i sofisticatissimi programmi di modellazione tridimensionale. Così facendo si perde la ricchezza indicibile dello spazio delle caverne, di Paestum, cioè di tutti quegli ambienti che non possono essere resi attraverso sintetici segni grafici.
L’icona, la semplificazione grafica dello spazio, impoverisce l’architettura, dando possibilità al ritorno del disegno come disciplina e non strumento; un ritorno spesso camuffato da forme organiche, decostruttiviste ma pur sempre a-spaziali.
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diego terna
[exibart]
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davvero ottimo.
la rubrica di architettura, per l'ennesima volta, offre contributi davvero buoni.
Anzi di più, trovo un rinnovato vigore!
bravi