Il secondo appuntamento di Osservatorio sull’architettura, a cura di Pino Brugellis e Manuel Orazi, porta alla ribalta l’ultimo degli utopisti scaturiti dalla cultura occidentale. È Yona Friedman, il gran vegliardo, l’architetto delle città spaziali, il sognatore concreto. “Ho sempre cercato, negli studi architettonici, di elaborare progetti che fossero realizzabili” dichiara Friedman, e in questo senso, come ha indicato nel discorso introduttivo Giandomenico Amendola, il suo pensiero germoglia direttamente sulla tradizione degli utopisti del Settecento. Quelli, per intenderci, che credevano realisticamente nella possibilità di un mondo diverso, se non migliore.
Friedman, di origini ungheresi (n. 1923), inizia a minare la cieca fiducia che il mondo degli architetti nutriva verso il Modernismo nel 1956, quando, al CIAM di Dubrovnick, enuclea l’idea una disciplina architettonica flessibile e in grado di aderire alle diuturne trasformazioni dei sistemi di aggregazione.
È il battesimo del concetto di “architettura mobile” che mette definitivamente in crisi tutte le ardimentose volontà pianificatorie della progettazione architettonica e urbanistica.
Il pensiero di Friedman si rivela pericolosamente trasgressivo anche nel nostro secolo. La negatività radicale, individuata nello ‘Stato Mafia’ e nella ‘Mafia dei Media’, è ancora sotto il dito profeticamente accusatore dell’architetto ungherese. Sono due delle utopie irrealizzate della nostra era -democrazia e comunicazione globale- che, con il fallimento delle aspettative, hanno trascinato nel crollo anche la base di valori morali sui quali si fondavano generando, inevitabilmente, gruppi di pressione che in nome di un’idea lavorano per i propri interessi.
Il mondo di Friedman, comunque, non vira al nero e al pessimismo (lo si legge anche nel suo sguardo cristallino), una possibilità esiste anche se, sorride il filosofo, “Non garantisco di avere la soluzione. Io non voglio rendere la gente felice, difendo soltanto il principio che voi stessi siete in grado di decidere”.
Nel concetto della autodeterminazione dei singoli risiede la radicalità delle Utopie realizzabili, che riesce a proporsi ancora fresca e suscettibile di sviluppi effettuali.
La possibilità indicata da Friedman è quella dei piccoli gruppi: “ognuno di noi” dice “è l’unico esperto delle questioni che lo riguardano”, non solo, è anche l’unico capace di individuare gli strumenti per trovare la soluzione. Dunque, l’uomo comune può modificare la realtà urbana con i suoi spostamenti quotidiani, le abitudini, l’elezione di poli aggreganti. Una materia fluttuante dai risvolti imprevedibili.
Un’architettura spaziale, caratterizzata da infrastrutture il più possibile neutre, è infine l’espediente concreto per attivare la capacità di realizzare autonomamente le città. Il discrimine è nel numero di individui radunabili in comunità, il gruppo critico, una soglia oltre la quale la maggioranza degli uomini diventa cattiva (così dicevano i Sette Saggi), oppure passiva. Su questa linea, in una prospettiva globale, Friedman incoraggia lo sviluppo di un’Europa delle città (sul piano amministrativo, beninteso) che si contrapponga allo schieramento di stati, necessariamente indifferenti alle aspirazioni individuali.
L’incontro si è svolto in un solatio lunedì pomeriggio presso la Fondazione La Sfacciata, sede del Gruppo Targetti. Nell’occasione è stata presentata l’edizione in italiano del testo Utopie realizzabili, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1974 e uscito in Italia, in una versione aggiornata, per i tipi di Quodlibet. Nel corso del convegno sono intervenuti anche Lara Vinca Masini e Sandro Poli del gruppo Superstudio, fondato a Firenze nel 1966 e attivo per tutto il decennio della contestazione con progetti di architettura radicale.
Yona Friedman ha tratteggiato con chiarezza i capitoli fondamentali della sua visione del mondo (il suo eloquio è lento e incisivo) e il suo pensiero ha scintillato limpido, ancora una volta, senza risentire dei suoi 81 anni di vita. Tanto per la cronaca compiuti proprio il 21 e festeggiati alla fine della serata.
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LIBERTA', COSTRIZIONE, ETICA.
In architettura tutto è costrizione e libertà. Le costrizioni d’inventare e la libertà di non fare si compenetrano senza frontiere. Un edificio è occasione di segnare un’epoca, magari flettere senza trasformarla. E’ dunque una pratica culturale e forse nient’altro. La sola costrizione realmente inevitabile: il tempo… di concepire, di costruire, di vivere. Non facciamo per l’atemporale ma per adesso, non dopo di me il diluvio ma, oggi, il temporale. C’è forse una morale delle forme? Quando teoria e pratica non erano distanti , erano le condizioni di una vertigine creativa. Oggi essere architetto, è resistere: rigore, efficacia. E se le nostre tavole sono piene di raschiature, difetti ed errori, non può essere che una questione etica.
mi piace quando chi vede è uno che arriva, accade così davanti ai lavori di Frieman!