Soleri è conosciuto e apprezzato dagli autori di romanzi futuristici e visionari, non solo per i suoi progetti di comunità autosufficienti che vagano nello spazio, quali Urbis et Orbis, Euclidian, Asteromo, ma anche, e forse soprattutto, per i suoi lavori più saldamente ancorati al terreno. Per esempio, la comunità di Arcosanti funge da sfondo ad alcune scene di Down the Cyberspace, romanzo del celeberrimo scrittore William Gibson.
Logology, Babel, Valadiga, cioè comunità arcologiche che Soleri immagina concretamente realizzabili, potrebbero essere ottimi scenari per racconti ambientati nel futuro prossimo o remoto: Star Wars in testa.
Le immagini che hanno gli autori di fantascienza delle città prossime venture sono, però, sempre inquietanti. Basti pensare ai desolati spaccati urbani di Blade Runner, alle claustrofobiche capsule artificiali di Final Fantasy oppure al tristissimo mondo
Un universo desolante non tanto perché sporco, inquinato, fatto di detriti. Ma perché proiezione del peccato originale dell’uomo. Cioè del disastro a cui porta l’eccessiva speranza in un progetto tecnologico risolutore, la fede nei propri mezzi, la certezza di una soluzione definitiva, la fiducia di realizzare un alveare artificiale pensato per una società destinata a funzionare come un perfetto organismo. Similmente inquietanti sono le città di Soleri. Nonostante la simbiosi con la natura, il sole, la terra, nascondono un peccato d’orgoglio, una idea forte, risolutiva, demiurgica che ci proietta, suo malgrado, in una dimensione che percepiamo come pericolosa.
In fondo il mondo di Blade Runner o di Final Fantasy è quello di una Arcologia che non funziona. E sappiamo che, alla fine, può non funzionare perché così succede a tutte le grandi utopie.
Freeman Dyson, un epistemologo tra i più acuti del nostro tempo, ne ha spiegato la ragione. Dice che la storia ha mostrato l’alto tasso di fallibilità delle idee umane e l’altissima percentuale di mortalità dei progetti di ricerca scientifici dovuti alla discrepanza inevitabile tra modelli scientifici e realtà. Ebbene, se si investe il proprio futuro in un’unica idea forte e complessa, si è quasi certi di aver speso male risorse e energie. Se invece si punta su molti e opposti programmi, si ha la possibilità, se non altro statistica, di poterne azzeccare qualcuno. Si è esaurita da tempo, del resto, la fede nei sistemi onnicomprensivi. Oggi, il pensiero urbanistico si muove nella direzione opposta ad Arcosanti. Produce schemi modificabili nel tempo e, soprattutto, in grado di contemplare una notevole pluralità di scelte e di iniziative, a volte anche in contrasto tra di loro. Paradossalmente la griglia debole di Manhattan, riproposta da Koolhaas, o la città flessibile di Brodoacre City di Wright sono più attuali dei progetti urbani dove forme e spazi si danno una volta per tutti.
Che fare allora delle utopie forti? Dichiararle superate e metterle nel cassetto? Sperperarne le capacità prefigurative? Relegare Arcosanti e le Arcologie agli esperti di fantascienza, dichiarandone l’inutilità pratica?
Non credo proprio. Se sono, infatti, convinto che le utopie non possano che rivelarsi controproducenti e dannose quando catapultate senza alcuna mediazione, riformulazione e rielaborazione nel quotidiano, sono ugualmente convinto che i progetti, soprattutto i più radicali e antagonisti rispetto allo stato di fatto, hanno valore inestimabile. Senza la semplificazione di un modello che spazializza un’ideale di vita, faremmo fatica a orientarci nel presente e a ipotizzare il futuro. Senza schemi totalizzanti, difficilmente potremmo riassumere nella chiarezza di un’idea e di una forma il magma dei nostri pensieri. Insomma: avere progetti sull’universo e sul nostro modo di vita non può che essere positivo; è confonderli con la complessità del reale che è certamente un pericolo.
Il nostro futuro, del resto, non sarebbe stato lo stesso senza le utopie di Tommaso Moro o di Tommaso Campanella. Ma non credo sia stato un male che i loro piani di riorganizzazione dell’uomo e dell’universo non siano stati realizzati, e siano entrati in circolo solo dopo essere stati filtrati. Si è così evitato di farli diventare strumento per sistemi soffocanti e totalizzanti, così come è successo a altre ideologie, invece prese per oro colato.
Così come, per ritornare all’architettura, non sono troppo preoccupato che siano rimasti in larga misura sulla carta il Plan Obus o la Ville Verte di Le Corbusier, Istant City di Archigram o anche i vettori che volano nello spazio incontaminato della natura di Luigi Pellegrin. Mi sembra non poca cosa, che le idee soggiacenti a queste ipotesi, si siano riversate in progetti parziali, che, però, ne hanno conservato intatto lo spirito e il messaggio. Dall’Unità di abitazione di Marsiglia al Centro Pompidou a Parigi.
Ecco il motivo, credo, di una mia preferenza per il Soleri che trasforma
La fabbrica di ceramiche Solimene a Vietri, per esempio, già nel 1955 riversa il continuum architettonico del Guggenheim in un edificio destinato alla produzione artigianale, cioè a funzioni apparentemente meno nobili di quelle di un museo d’arte. Non solo. Soleri, in nome della valorizzazione dell’unità dell’attività umana, abolisce le logiche della zonizzazione, tanto di moda negli anni cinquanta, e realizza un edificio che è insieme luogo di stoccaggio dei materiali, studio e ideazione, realizzazione e vendita. Anticipa, inoltre, la sensibilità pop che negli stessi anni sta emergendo negli Stati Uniti, coprendo la facciata di fondi di vasi, piatti e scodelle, con un’operazione che ha insieme valenze ecologiche – date le capacità isolanti del materiale scelto- e commerciali – data la inusuale immagine urbana dell’edificio. Intuisce con anni di anticipo quanto la specificità del contesto e della cultura del luogo – ciò che oggi si chiama local – debba prevalere sulle logiche internazionalistiche – il global – ma senza nessuna concessione a dialetti, imitazioni stilistiche, vernacoli e nostalgie passatiste.
La casa Dome, realizzata per la suocera nel 1949, è la parziale soluzione di un problema che credo segni tutta la vita artistica di Soleri e che, più in generale, drammaticamente ci caratterizzi noi in quanto uomini. Lo possiamo esemplificare attraverso il contrasto tra due figure mitologiche:
Soleri nella Dome fa coesistere i due principi: la casa è della terra, ma nello stesso tempo, grazie alla cupola, ne è oltre. Riprenderà il tema nei suoi progetti di Arcologie, sperimentando altre soluzioni, spesso affascinanti, ma mai così elegantemente e risolutivamente sintetiche.
Cosanti, infine. Credo che sia la sua migliore realizzazione. Per lo spirito informale e antigeometrico. Per l’apparente primitivismo, per il vibrare della materia, per la scelta di soluzioni semplici che appartengono alla terra. Per il dialogo a distanza con Bruce Goff, ma all’interno di uno spirito monastico che supera, rifiutandolo, l’estetismo di quest’ultimo.
Mi piace pensare che è proprio lo spirito monastico a essere la forza di Soleri, il quale credo sappia bene quale sia stato il ruolo delle comunità conventuali nel segnare il corso dell’architettura contemporanea: un convento ispirò gran parte della produzione di Le Corbusier e nel convento di Taliesin spadroneggiava Wright.
E da tale spirito ascetico, mi sembra, derivano cinque punti forza. Concernono il ruolo dell’architetto, l’azzeramento linguistico, la passione ecologica, l’amore cosmico, il valore dell’artigianato.
Ruolo dell’architetto . Per Soleri l’architettura non è mai gioco di forme ma soluzione di problemi. I quali non debbo
Azzeramento linguistico. Consiste nel rifiuto di accettare, senza critica, forme già preconfezionate e nella fiducia di produrre un proprio linguaggio, inventando nuovi sistemi di relazioni. Nello stesso tempo Soleri non obietta a utilizzare forme consolidate quando queste possono veicolare i contenuti da lui previsti. Si osservi la pianta a semicerchio dell’ Est Crescent di Arcosanti che , pur in assenza di un alto grado di inventività formale, appare come la più idonea per strutturare il complesso programma funzionale di un anfiteatro sul quale affacciano abitazioni-laboratorio. Risultato: Soleri sconcerta i tradizionalisti per le sue soluzioni avveniristiche e i modaioli per le soluzioni a volte arcaiche e apparentemente scontate.
Passione ecologica. Soleri, con una inventività straordinaria sonda tutte le tecnologie che siano ecologicamente responsabili. Ma a differenza di alcuni protagonisti del dibattito contemporaneo, che lavorano con sistemi complessi, High Tech, costosi e a volte controproducenti perché spostano l’inquinamento e lo spreco energetico da un sistema a un altro, Soleri sperimenta forme semplici, naturali, decisamente Low Tech. Pur essendo profondamente diverso, Soleri è forse il miglior continuatore della ricerca di Buckminster Fuller, avendone appreso, compreso e sviluppato il concetto di sinergia: cioè risparmiare sforzi per moltiplicare i risultati, facendo lavorare tutte le risorse, soprattutto naturali, insieme, nella medesima direzione.
Valore dell’artigianato. Inteso come appropriazione della multidimensionalità dell’uomo contro la unidirezionalità imposta dalla tecnologia. Artigianato come rottura della scissione tra lavoro e tempo libero, utile e inutile, produzione e gioco, età lavorativa ed età pensionabile. Rivendicazione del dilettantismo contro la specializzazione.
E’ quest’ultimo forse l’aspetto più sconcertante del pensiero di Soleri. Un problema rispetto al quale, a differenza di altri – penso ai situazionisti e Costant- Soleri mette a punto, sperimentandola, una soluzione: Arcosanti.
Può Arcosanti essere oggi considerato un modello? Una risposta articolata alla domanda andrebbe oltre i limiti di questo scritto. Sono comunque certo che per rispondere positivamente o negativamente occorrerebbe considerare il ruolo delle moderne tecnologie, e in particolare delle tecnologie elettroniche, nel prefigurare modelli alternativi di assetto territoriale. Non saprei però dire quanto questo pensiero sia presente nell’opera, anche attuale, di Soleri.
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