Iniziamo dal titolo –e dal tema- di questa Biennale di Architettura, Metamorphosis, poetico, sì, ma anche decisamente impegnativo…
L’architettura sta attraversando un periodo di rivoluzionari ripensamenti che hanno già aperto inaspettate prospettive. Intendiamo dispiegarle alla Biennale di quest’anno. Nel Padiglione Italia Peter Eisenman ci invita a seguire un percorso da Palladio a Terragni e alle proprie opere in una maniera che richiama quella di Piranesi, e Massimo Scolari ci spiega la minacciosa presenza del fulmine sul tetto del Padiglione come segno di distruzione della Torre di Babele. Pezzi di enigmatica natura – arcaica costruzione di legno con un nucleo in acciaio – incuriosiscono per l’irrequieta bellezza del disastro. Come l’evoluzione della natura, anche quella della recente architettura è segnata da perdite e desolazione. La metamorfosi ha il suo prezzo, ma ha anche i suoi nuovi protagonisti, e, credo, un immenso futuro. Il Padiglione Italia si conclude con stanze quasi di laboratorio, nelle quali architetti come Christopher Wilkinson (Wilkinson Eyre) e Ben Van Berkel (UN Studio) ci rivelano come si arriva ad un mondo di forme nuove, di tecniche innovative, e di invenzioni che stanno rivoluzionando l’architettura.
Una delle più interessanti metamorfosi dell’architettura contemporanea è strettamente connessa con le nuove tecnologie digitali. Penso per esempio allo studio Asymptote e al suo NYSE 3d trading floor, un ambiente che è completamente virtuale. Molti la definiscono una vera e propria Rivoluzione digitale. Che cosa pensa in proposito?
I mezzi informatici sono la nuova linfa di tutti i sistemi operativi del nostro mondo. In architettura, l’impiego di questi mezzi sta lentamente ricollegando le varie maestranze chiamate ad operare in campo. Si comincia a intravedere un prossimo futuro che permetterà di controllare tutti gli aspetti concettuali e tutte le tappe esecutive di un’opera di architettura con un unico strumento. Ma non pensiamo affatto che ne risulti un’architettura di “computer”, al contrario, siamo convinti che i mezzi informatici sprigionino l’immaginazione e le potenzialità del costruire oltre i limiti finora tacitamente accettati e ideologicamente giustificati
Lei propone una visione degli anni Ottanta basata su quattro nomi: Aldo Rossi e James Stirling, Peter Eisenmann e Frank Gehry…
L’esteso percorso delle Corderie offre un’esperienza quasi fisica del contrapporsi di una prospettiva fissa con una dinamica visione dello spazio come vera sostanza dell’architettura. Entriamo prima in uno spazio quadrangolare dove proponiamo un breve riepilogo della situazione di partenza: ritorniamo per un attimo agli anni intorno a 1980 quando le Corderie furono occupate dalla Biennale di Architettura –la prima- diretta da Paolo Portoghesi. Si celebrò il Post-modernismo. Oggi proponiamo una diversa chiave di lettura che incardina il momento degli anni Ottanta su quattro figure: Peter Eisenman e Frank Gehry da un lato, Aldo Rossi e James Stirling dall’altro. Due dei quattro risiedono oggi all’interno di quella storia della quale si aspettava un futuro, mentre gli altri due, Eisenman e Gehry, sono diventati i veri protagonisti di quell’architettura che lentamente, ma inesorabilmente, stava prendendo forma negli ultimi decenni. Come questo sia avvenuto, e su quali teoremi si sia articolato il cambiamento è il tema delle Corderie. Quattro i tempi principali del percorso, un po’ come accade in una sinfonia: un preludio sulle Trasformazioni, poi la Topografia, le Superfici cosi indispensabili alla creazione di Atmosfera, e infine gli Iper – Progetti che sfruttano al massimo le nuove acquisizioni dell’ultima architettura.
Trovo molto interessante che ci sia una sezione dedicata alle sale da concerto. Perché parlare proprio di questa tipologia di edificio? Quali sono i più interessanti progetti in questo campo?
Partendo da tre opere di epocale importanza, seguiamo le recenti invenzioni di una quarantina di Sale concerti da tutto il mondo. Tutto discende da un “mostro sacro”, la Philharmonie di Berlino, architettata da Hans Scharoun. A metà del secolo scorso criticata per espressionismo fuorviante, la Philharmonie si rivela invece imprescindibile tappa nell’evoluzione delle moderne sale concerto.
Un altro caposaldo per innovazione e tecnica mediatica fu ideato da Le Corbusier e Iannis Xenakis che creò il Padiglione Philips per l’Esposizione mondiale di Bruxelles. Il terzo punto di riferimento è l’opera di Jørn Utzon a Sydney.
Una sala che coscientemente abbraccia tutte e tre queste posizioni e le supera con singolare vitalità è la Disney Concert Hall di Frank Gehry. Un’ opera questa che riesce a misurarsi con la storia dell’intera categoria. I quattordici anni che sono trascorsi tra il concorso iniziale e l’inaugurazione dello scorso anno fanno sì che la Disney Hall diventi un topos dell’intera evoluzione delle Sale concerto. Così ci avviciniamo alla fenomenale rinascita di un tipo di edificio che, inizialmente sonnecchiante per mezzo secolo, riprende fiato in determinanti momenti e si manifesta ad una scala che stuzzica ulteriori riflessioni. Quasi sempre concepite come improbabile unione tra due contrastanti aspettative, le sale concerto si rivelano uno spazio contraddittorio. Ma proprio le loro contraddizioni alimentano un’impressionante sviluppo. Un altro motivo ancora le rende interessanti: nelle sale concerto l’architettura, benché perfezionandosi in termini tecnici, trascende la sua autonomia, superando i propri limiti e guadagnando ancora una qualità in più, quella dell’atmosfera.
intervista a cura di mariacristina bastante
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articolo ben scritto e con molte ottime considerazioni..dopo la visita cercherò di commentare con più senso critico..
roberto