Le sorprese, per quel che riguarda la Biennale di Architettura n.13, sono cominciate subito, al tempo della nomina del curatore. Era la fine del 2011 e la scelta di David Chipperfield da parte di Paolo Baratta destò qualche sorpresa nel mondo degli addetti ai lavori. A colpire erano soprattutto alcuni ricorsi. Chipperfield, come la curatrice del 2010 Kazuyo Sejima, è un architetto famoso e praticante, con poca o nessuna esperienza nel campo delle mostre. Il secondo indizio interessante è che si tratta di un progettista inglese, proveniente dallo stesso ristretto gruppo di amici dal quale provengono anche i curatori di altre due biennali recenti, Richard Burdett, studioso di fenomeni urbani e autore della fortunata biennale “sulle città” del 2006, e Dejan Sudjc, bravissimo direttore del Design Museum di Londra e curatore di una biennale piuttosto opaca nel 2002.
Strane coincidenze insomma, che lasciano intendere che per il presidente della Biennale in questo momento di conclamata debolezza della ricerca architettonica, la soluzione può essere rivolgersi direttamente ai progettisti e richiamarli alla loro responsabilità verso la società (People Meet in Architecture) e verso i colleghi (Common Ground). E di confidare nel pragmatismo professionale britannico come unica cultura capace di trasformare tutto questo in un dispositivo espositivo semplice e di successo.
Come ha risposto Chipperfield all’appello di Baratta? All’inizio in modo apparentemente un po’ confuso, vale a dire scegliendo un titolo molto allineato alla richiesta di assunzione di responsabilità proposta dalla Biennale – Common Ground – ma lasciando poi ai numerosi invitati l’assoluta libertà d interpretarlo a modo loro. Ai due estremi del “terreno comune” si sono inevitabilmente polarizzate due categorie di architetti molto distanti: da un lato i progettisti che per comune intendono quel terreno definito da istanze politiche, urgenze ecologiche, sperimentazioni (auto)costruttive ed esercizi di partecipazione nel quale architettura e società cercano di incontrarsi; dall’altro i designers che vogliono invece rimarcare l’esistenza di un retroterra disciplinare comune, un repertorio fatto di maestri, immagini, fondamenti e saperi ai quali rimanere ancorati per tenere vivo il discorso architettonico in una fase di crisi acuta della professione (no money left, baby) e della ricerca espressiva (le abbiamo più o meno provate tutte, no?).
Credo che all’inizio il curatore e la stessa Biennale abbiano un po’ investito su questa ambiguità, che consente alla mostra un raggio d’azione (e un potenziale di consenso) molto ampio. Poi lentamente Chipperfield ha reso chiaro che la sua versione del Common Ground è quella più disciplinare, nella quale agli architetti invitati è richiesto di rivelare origini, riferimenti e affinità. Il dispositivo scelto dal curatore e dal suo infaticabile team (Kieran Long, Jaffer Kolb, Shumi Bose) è perfettamente coerente con l’approccio, poiché prevede che agli oltre settanta invitati non si chieda semplicemente di esporre un progetto o non so cosa, ma piuttosto di curare a loro volta una piccola mostra nello spazio assegnato, nel quale ospitare i lavori di amici, maestri, artisti e affini di vario genere. L’operazione implica degli ovvi rischi espositivi, poiché il percorso è appesantito e ridondante, con A che invita B e C nel suo spazio e poi viene invitato a sua volta da C e D eccetera, però offre una rappresentazione plastica molto efficace dell’intento solo apparentemente disincantato del curatore, che tende invece, inevitabilmente, a costruire un sistema solido di alleanze e affinità, perfettamente collocabile all’interno delle geografie disciplinari e delle complicate lotte di potere architettonico in una fase di vuoto e di incertezza (e del possibile tramonto di alcuni dei).
Come si riflette tutto questo nella mostra? Alla fine, non so se per sapiente regia o per puro caso, la schizofrenia di cui soffre la mostra ha una rappresentazione molto chiara negli spazi della Biennale. Al Padiglione Italia, introdotto da un incomprensibile muro di mattoni scuri realizzato dallo studio danese Kuehn Malvezzi e da una stanza dedicata dalle Grafton Architects al maestro brasiliano Paulo Mendes Da Rocha, i visitatori trovano una versione più fedele della linea Chipperfield, con le foto dei padiglioni della Biennale fatte da Gabriele Basilico per Diener & Diener, col Pasticcio nel quale i morigerati inglesi Caruso & St, John invitano al banchetto veneziano tutti i loro amici, con un altro disturbante pastiche, dedicato questa volta da Peter Eisenman al Campo Marzio di Piranesi, fino agli omaggi espliciti di Toshiko Mori ai massimi maestri.
Lo stesso atteggiamento lo troviamo ovviamente anche in molti degli autori ospitati alla Corderie, ma all’Arsenale il percorso è più rapsodico e diseguale. Si passa senza mediazione dalla stanza (bella) ieraticissima con la quale Valerio Olgiati chiama a raccolta le passioni architettoniche dei propri amici alla folkloristica (troppo) realizzazione al vero dell’architetta indiana (residente in Australia) Anupamaa Kundo. Più avanti saltiamo dalla ieratica esibizione di ideologia classicista e panachitettonica di Hans Kolhoff all’allegro ristorante (operante) venezuelano da favela allestito da Urban-Think Tank, dal candore col quale Zaha Hadid scopre improvvisamente di avere dei “debiti” disciplinari, costruttivisti russi a parte, verso Felix Candela e Heinz Isler agli straordinari arazzi realizzati da Noero e Wolff insieme a un gruppo di donne sudafricane.
Anche i Padiglioni Nazionali, di solito il bene-rifugio della Biennale Architettura, hanno risposto in modo molto diseguale al tema proposto. Va però ricordato in questo senso che, per motivi che non abbiamo bisogno di spiegare, spesso i vari Paesi scelgono i loro commissari (e i commissari i curatori) prima ancora che venga indicato il curatore della mostra. Ne deriva che spesso i padiglioni vanno per la propria strada, oppure tentano riconnessioni avventurose e non molto convincenti al tema generale della mostra, con risultati strani, ma anche con una libertà che alla fine fa bene alla mostra.
In questa edizione forse solo gli inglesi (obviously) hanno preso alla lettera l’indicazione del curatore e si sono sguinzagliati in giro per il mondo in un esercizio di colonialismo al contrario, cercando nei vari contesti “soluzioni da importare”. Per il resto alcuni hanno interpretato il common ground come storia e identità nazionale (soprattutto tra i Paesi emergenti), altri come incitamento a guardare insieme al futuro dei loro paesaggi. Altri ancora – ad esempio gli australiani – come un’occasione di introspezione ironica e accurata. La sintesi più interessante è forse quella proposta dal Padiglione Danese, come sempre molto ricco, che raccoglie architetti e pensatori intorno al futuro di una terra fragile ed estrema, la Groenlandia.
“Ti è piaciuta la biennale?”, è la domanda di questi giorni. Ma è quasi impossibile dare un giudizio sintetico su un evento che alla fine allinea centinaia di progettisti di tutto il mondo sparsi in decine di sedi veneziane (ormai la biennale architettura segue in questo le tracce di quella di arte). Posso dire quali sono secondo me le installazioni “da non perdere”, oltre a quelle già citate. A parte i vincitori più meritevoli, Urban Think-Tank, i giapponesi e il repertorio di “attivismo urbano” degli americani, tra i padiglioni trascurati dalla giuria certamente lo spazio mobile e avvolgente disegnato, anzi “cucito”, da Petra Blaise per il Padiglione Olandese. Il suo obiettivo, su un piano divergente da quello di Chipperfield, sembra essere l’affermazione che non sempre ci vogliono cemento e ferro per fare architettura. Poi il Padiglione Israeliano, ironico e accurato, dedicato a indagare il ruolo della cultura americana nel Paese. E quello serbo, ieratico e sofisticato, quasi vuoto. Tra le partecipazioni individuali le foto di Thomas Demand, lo spazio geniale del collettivo olandese Crimson Architectural Historians, Noero & Wolff, l’omaggio alle riviste di Steve Parnell, gli inserimenti di Olafur Eliasson e quelli (un po’ meno riusciti) di Thomas Struth. Per accedere al padiglione centrale, ai giardini, si attraversa un’installazione ermetica e interessante di Alison Crawshaw, progettista inglese che ha dedicato diversi mesi allo studio di una delle più recenti “aree di edificazione abusiva” a Roma (Borghesiana) e ha reagito costruendo una struttura che qui a Venezia fa da ingresso ma a che a fine mostra tornerà a Roma e si trasformerà in una sala comune per gli abitanti del quartiere. Nel cuore del padiglione, invece, l’interpretazione più interessante del concetto di common ground, vale a dire la ricerca di OMA (lo studio di Koolhaas) sugli architetti operanti negli uffici tecnici delle istituzioni.
La biennale – o almeno la mostra del curatore – è fatta sostanzialmente di tre parti: la massa principale, molto londinese e un po’ svizzero-tedesca, costituita dagli architetti fedeli allo spirito dolcemente conservative chipperfieldiano; le partecipazioni più eccentriche rispetto al tema ma molto rappresentative del paesaggio architettonico globale e infine una moderata rappresentanza di archistar, non essenziali al plot della mostra, forse più tollerate che volute dal curatore. C’è molta Europa e un po’ di Nordamerica, ma poco Sudamerica, pochissime emerging countries, quasi niente Far East, Africa e Australia. La ragione dev’essere un po’ culturale, poiché Chipperfield lavora per rinsaldare lo zoccolo duro della disciplina architettonica occidentale, e un po’ pratica, dati i tempi sempre troppo ridotti che ha a disposizione il curatore di architettura. C’è poi un padiglione italiano, curato da Luca Zevi, che racconta il rapporto aureo che l’architettura italiana aveva con l’industria ai tempi di Olivetti e che auspica di ritornare a quelle sinergie. Di architettura ce n’è poca, ma sfido chiunque a fare un progetto di mostra documentato e soddisfacente quando si è nominati – e non si capisce proprio perché – a due mesi e mezzo dall’inaugurazione.
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