La definizione è affascinante è può essere estesa alla filmografia in generale, al mondo di celluloide. Lo possiamo raffigurare così, come un grande edificio un po’ fatiscente, in stile floreale, come quelli che popolano i viali del Lido di Venezia, carichi di una decorazione animata da personaggi favolistica, ninfe, putti, fiori esotici, colori sbiaditi. Un Hotel, appunto, pieno di stanze, corridoi lunghi e rossi di moquette polverose, un po’ consunte vicino alle porte, ognuna contrassegnata dal suo numero, appuntato con i chiodi e dal carattere svolazzante. Tra le camere, abitate dai numerosi personaggi e attori, si aggira un fantomatico cameriere, distinto, dai movimenti lenti e consueti, che conosce i diversi piani palmo a palmo, che si aggira continuamente come un ombra nell’edificio controllando che sia tutto a posto. Durante le sue passeggiate, questo Jeeves (mitico cameriere frutto della fervida immaginazione dello scrittore inglese P.G.Woodhouse) immaginario, non può fare a meno di incontrare qualcuno degli ospiti dell’albergo, di carpirne pezzi di conversazione, di assistere, anche se solo in parte, a litigi di coppia, di osservare le bizzarre abitudini di qualcuno. Noi, al Festival di Venezia, saremo come questo cameriere, ci aggireremo per il jet set, per le sale cinematografiche, annuseremo l’aria di festa, osserveremo da vicino e da lontano le dinamiche da Festival. Spieremo anche brandelli di pellicole, cercando di tracciare tra di esse un filo rosso che le interpreti come tasselli di un unico racconto, come stanze di un unico albergo, come frutto di una molteplice ma unica cultura. Cercheremo di capire come la rappresentazione cinematografica possa costituire una testimonianza diretta, esplicita e rivelatrice di quella che è il nuovo rapporto uomo – città – mondo. La relazione uomo-ambiente, e le dinamiche contemporanee con cui si sviluppa, sarà l’argomento su cui si incentrerà la nostra attenzione: interni, oggetti, arredi; esterni, vicoli, grattacieli, deserti; colori, luci, atmosfere. Potremmo scoprire set allestiti in architetture famose, come è stato con Wright per Blade Runner, o per le Case Study House di Pierre Koenig a Los Angeles, più conosciute grazie alle fotografie di Julius Shulman e, appunto, alle ambientazioni di tante pellicole (tra cui, se non sbaglo, La dea dell’amore di Woody Allen). Sono orami diversi i saggi che hanno approfondito il tema del rapporto tra cinema e architettura (brevi ma interessanti: P.F.Colusso, Wim Wenders.Paesaggi luoghi città, Testo & Immagine, Italia, 1998 – Licata-Mariani Travi, La città e il cinema, Testo & Immagine, Italia, 2000 – F.C. Nigrelli, Metropoli immaginate, Manifestolibri, Roma, 2001), che hanno sottolineato come spesso la macchina da presa riesca a cogliere aspetti inconsueti del costruito, ad animare i luoghi proiettandovi speranze e paure dell’uomo. Il cinema come “prefigurazione urbana”, come rappresentazione del mondo che verrà, della città del futuro, o il cinema come denuncia della miseria, dell’impoverimento del vuoto, della solitudine che regna nella metropoli, ma anche fuori da essa. Locale e globale sembrano essere i termini nuovi su cui si gioca il contrasto dimensionale, anche se il male di vivere è sempre comunque e ovunque lo stesso.
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Note: Citazione nel titolo tratta da un saggio di Gian Piero Brunetta, in AA.VV. Arte Italiana. Presenza 1900-1945, catalogo della mostra, Palazzo Grassi, Bompiani 1989[exibart]