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Il futuro dell’architettura. Riflessioni sulla Biennale di Venezia 2023
Architettura
C’è un’atmosfera frizzante a Venezia in occasione di questa Mostra internazionale di Architettura della Biennale. L’incubo della pandemia sembra definitivamente alle spalle, con il suo inevitabile gioco di rinvii che avevano lasciato bollire troppo a lungo in pentola alcune buone idee della scorsa edizione di Hashim Sarkis normalizzandone gli esiti. Lesley Lokko, architetta e professoressa ghanese direttrice di questa edizione, può giocarsi liberamente le carte che custodisce da anni costruendo un articolato pianeta attorno alla vertenza dell’architettura africana o connessa alla diaspora dei progettisti africani nel mondo. Laboratory of the future è il titolo ambizioso di questa mostra che si confronta a viso aperto non solo con l’architettura ma con l’ecologia, l’arte e la politica, e soprattutto tende a riposizionare al centro di incroci complessi il ruolo dell’architetto come vero e proprio mediatore e figura capace di ordinare un problema dalla scala più piccola a quella planetaria.
Ai Giardini la mostra ha il suo cuore pulsante nel Padiglione centrale, dove progettisti e artisti d’Africa o dall’Africa arrivati in ogni luogo del pianeta costruiscono, grazie alla abile regia della curatrice, una rapsodia sincopata e avvincente. Un cuore rosso di terra bruciata conduce in luoghi diversi: un magico e ipotetico parlamento di Ibrahim Mahama impressiona con le sue sedie di vetroresina contrapposte e ampie file di vecchie boiserie. Sembra il sito ideale ed esoterico per lo scambio di saperi misteriosi di strategie simbiotiche che spostano sensibilmente l’asse eliotermico a cui siamo consuetamente avvezzi.
David Adjaie e Kéré Architecture raccontano due storie intense: il primo si esprime senza timidezze attraverso una bella istallazione composta da plastici di architettura che testimoniano una non comune attitudine a realizzare siti dotati di una forte valenza poetica, il secondo invece costruisce una installazione di percorsi e spirali in terra cruda dove i progetti, specialmente quelli realizzati dall’autore all’inizio della sua brillante carriera, lasciano vedere una convincente attitudine per uno spazio pubblico africano dove la scuola è protagonista e viene rappresentata attraverso la potenza plastica dei principi dell’autosufficienza energetica e nella eleganza di doppi temi, come il tetto aerato che conclude brillantemente corpi semplici e fascinosi dal colore terroso e serramenti multicolori.
Sono progettisti ormai consacrati e attorno ad essi si dipana una miriade di giovani protagonisti della diaspora africana che testimoniano, non senza un istinto decorativo e comunicativo piacevole, temi drammatici connessi alle lotte e all’emarginazione, superati con notevole sicurezza e sprezzatura. La baracca dove i nonni preparavano le lotte nell’America degli anni Sessanta si trasforma in una sofisticata installazione concepita in forma di rinnovata capanna di Laugier, trasformata in un elegante e indecifrabile edificio che alla semplicità del tetto a falda unisce la potenza di un setto interruttivo pronto a delimitare lo spazio in una soluzione elegante e inondata di luce gialla e rosa. Poi i video – forse troppi – e i giochi di natura fumettistica sono interessanti, ma forse rischiano di indebolire ripetendo all’infinito gli enunciati della curatrice in casistiche a volte enigmatiche. Questo approccio criptico segna anche molti padiglioni nazionali che non riescono a reggere il confronto con quanto espresso in quello centrale, ad esclusione, forse, della Germania, che persegue una strategia mnemonica ambiziosa ma non riesce ad uscire dalle tante pratiche del riciclo con una interpretazione totalmente convincente.
Bello e coraggioso il bagno a secco esposto dai finlandesi e la piazza prodotta nel padiglione Belga con materiali autogenerati dal proprio corpo. Un po’deluso dalla Svizzera, troppo ambiziosa, mi porto all’Arsenale dove la mostra è un rutilante svolgersi di stanze colme di istallazioni e di architetture interessanti. Ricardo Flores e Eva Prats trasferiscono il loro studio e con immensa generosità espongono l’handmade di un processo sempre rivolto a trasformare con quello che trovano. Gli architetti catalani mostrano una sicurezza così diversa che difende il ruolo dell’architetto artigiano come colto e sofisticato interprete dei processi di modificazione alla scala dell’edificio ma soprattutto alla scala urbana. Ci vuole coraggio a mostrare a tutti i propri ferri del mestiere, e Ricardo ed Eva lo fanno con una naturalezza direi sontuosa, dimostrando di essere una delle più autoriali presenze dell’architettura contemporanea. Questo è il motivo per cui gli autori vanno difesi, poiché rischiano e non hanno paura di sbagliare.
Sono certo, però che questo mondo sta cambiando ed è pronto a riconciliarsi con l’homo faber. Ci sono poi, nitide architetture dove una seconda generazione della modernità restituisce alla scala, alla rampa, alla promenade architecturale il ruolo che le spetta nella scena di oggi. AMAA è una sorprendente presenza italiana che presenta un bellissimo progetto dove è evidente la passione per lo spazio architettonico fluido ma possente di Jorn Utzon. Il gruppo, con una notevole autonomia, opta per il riutilizzo dell’ex base NATO del Monte Calvarina, nel comune di Roncà, che domina le valli tra Vicenza e Verona. La base militare, attiva dal 1959 al 1995, si trasforma in un illuminato pensiero su come proporre la ricopertura e la rinaturalizzazione del luogo abbandonato. Lo fa con un modello sontuoso di materie sofisticate sovrapposte come strati e insieme tiene vivo il tema della decorazione (a me particolarmente caro) vissuto con una freschezza e potenza totalmente inedite. Il resto scorre tra alti e bassi con uno splendido padiglione Argentino.
L’Italia, questa volta, prova con la giovane formazione dei Fosbury, affidando nove luoghi critici del paesaggio italiano a cure dolci di progettisti, artisti, intellettuali, che compiono una operazione avvincente che rischia di cadere, a tratti, in un eccesso di simbolismo. I luoghi del paesaggio vengono indagati con scrupolosa attenzione, producono opere assolutamente semplici e discrete ma connotate da una notevole ingegnosità come la capanna berbera proposta a Librino, alla periferia di Catania. Si tratta di un approccio volutamente vuoto: la prima sala ha solo un grande video mentre la seconda accoglie le opere riproposte al ritorno delle performance nei luoghi impregnate di un racconto suggestivo e giustamente compiaciuto. In definitiva, l’avvicinamento all’arte non è un problema quando l’architettura si sta trasformando in una asettica prestazione tecnica. Il giudizio su questo padiglione, che con un po’ di coraggio andava premiato, non può che essere positivo e lasciarci guardare a un nuovo futuro artigiano che non smetterò mai di auspicare per l’architettura italiana nello spazio bianco del futuro.