Dal 29 al 31 luglio, a Gibellina, riapre il Teatro di Consagra, un esempio eclatante di architettura incompiuta, potenzialmente tra i più significativi del territorio siciliano. L’occasione è Grande Teatro, l’evento di chiusura di Noi Siamo Qui – Materia Umana, progetto vincitore dell’avviso pubblico Creative Living Lab – IV edizione, promosso dalla DGCC – Direzione Generale Creatività Contemporanea del MIC – Ministero della Cultura, proposta da CineMario, CRESM e curata da Progetto Matèria, un lavoro partecipato di indagine, riscoperta e riconoscimento territoriale dell’area del Belice, dopo il sisma del 1968.
Nella sua configurazione attuale, il Teatro risale al 1984, su progetto dello scultore Pietro Consagra con il supporto dell’architetto Francesco Simeoni nella stesura dell’architettonico, degli ingegneri Maurizio Valenzi e Fabrizio Giovagnoni per le strutture e dell’ingegnere Fabrizio Bianchi per l’impiantistica. I lavori del progetto iniziarono effettivamente nel 1989, più di 20 anni dopo il terremoto che distrusse il Belìce, ma il progetto non fu mai completato. Nel 2022 è stata ammessa al bando che finanzia gli interventi di riqualificazione del territorio del Ministero per il Sud, l’idea progettuale da 65 milioni di euro che regalerà una nuova vita al teatro incompiuto, che diventerà il ConsagraInnovationHub. L’edificio, su progetto dello Studio Mario Cucinella, sarà trasformato in un incubatore e aggregatore.
Il 29 luglio, tra gli ospiti dei talk nel calendario di Grande Teatro, João Ferreira Nunes, architetto portoghese e riferimento internazionale per la progettazione del paesaggio contemporanea. Alessandro Messina e Valentino Danilo Matteis, curatori dell’iniziativa, lo hanno intervistato.
La storia di un territorio unico come quello di Gibellina, ricostruito attraverso interventi di artisti: qual è la sua opinione a riguardo?
«Ricostruito è una parola complessa. Un territorio si costruisce attraverso regole che oltrepassano a dimensione artistica. Quello che è stato fatto è una specie di rappresentazione di un territorio scomparso, non la ricostruzione del territorio perché di fatto mancano tutte le relazioni, i rapporti, le connessioni che invece possono costruire un territorio scomparso.
Questa è una grande opera d’arte, nata da partecipazioni molto valide, ma non è la ricostruzione di un territorio. Un territorio si ricostruisce proponendo rapporti di quotidianità, rapporti di sopravvivenza, rapporti di domesticità che effettivamente non fanno parte della rappresentazione artistica che abbiamo a Gibellina».
Il lavoro portato avanti da questo progetto intende valutare il risultato della pianificazione anche attraverso il confronto con le comunità che lo abitano: quanto può essere ancora importante l’architettura partecipata?
«Mai come ora, l’architettura è partecipata, il progetto è partecipato, l’urbanistica è partecipata e lo è il modo di farlo. Però, bisogna farlo con una certa attenzione. Coinvolgere, misurare, capire le relazioni presenti significa essere capaci di ascoltare, di interpretare e soprattutto di fare le domande giuste. La partecipazione richiede al progettista sensibilità, conoscenza, e voglia di estrarre il contenuto dei partecipanti.
Uno dei problemi della partecipazione pubblica è il protagonismo predatore dei portatori di interesse. I gruppi organizzati, che sono i processi iniziali della partecipazione, che fanno tutta la discussione intorno ai suoi problemi centrali politici, sovrapponendo cose che sono a volte a servizio anche di volontà e di interessi dubbiosi ai veri interessi dei locali, invece per ragione di mancanza di organizzazione, mancanza di informazione, o di abilità nel dialogo non espongono i suoi problemi e poi, gli aspetti veramente interessante, non emergono. Questo è uno dei rischi.
Invece perché la partecipazione funzioni, bisogna essere capaci di arrivare alle persone singole, non alle associazioni, ai gruppi politici.
Uno dei processi di partecipazione più interessante che ho conosciuto è il progetto degli anni ’90 dell’Aldeia da Luz in Portogallo. Si costruì una grande diga e si doveva fare un villaggio, e si coinvolsero gli abitanti nel nuovo disegno. Allora, alla domanda “come vuoi che sia la tua casa, come vuoi che sia la tua città”, tutti rispondevano ugualmente.
La partecipazione intesa come riproduzione di concetti e forme rassicuranti, simili a quelle esistenti per ottenere accondiscendenza dal pubblico, piuttosto che vera partecipazione, diventa molto pericolosa. È necessario invece partire dalla domanda “come è fatta la tua casa” per trasporre questi desideri in un vero processo progettuale».
In una situazione di emergenza climatica come quella attuale, in che modo la pianificazione paesaggistica si rivela strategica nella sopravvivenza delle città e negli spazi antropici?
«Da quando l’uomo è capace di insediarsi consapevolmente in luoghi che producono vantaggio per la propria comunità, quello che facciamo è proprio questo: una pianificazione paesaggistica in cui si individua la giusta posizione rispetto al vento, al sole, all’acqua, al fiume, alle piogge, alle alluvioni, alla circolazione delle persone, al consumo dei suoli più produttivi.
Consideriamo straordinario ciò che sopravvive cinquecento, mille anni a trasformazioni di tutti i tipi, anche climatiche. Il clima non è mai stato stabile nella satira dell’uomo, e le città che hanno saputo adattarsi alle trasformazioni sono quelle che hanno saputo fare pianificazione paesaggistica molto intelligente nel tempo. Ciò che la pianificazione, nei paesi civili, cerca di fare è identificare i grandi valori del futuro: l’acqua, il suolo produttivo, il rapporto con il sole e con il vento – per costruire microclimi regolabili e adattabili a diverse condizioni. Quindi la progettazione paesaggistica agisce un po’ come moderazione di questi fattori pesanti, tra cui gli ambienti climatici.
Ora siamo sempre più tentati dal “non fare” come soluzione a tutto. Ma chi lavora con il paesaggio ha la capacità e la conoscenza sufficienti per dire no, si può fare. In un certo modo, con una certa consapevolezza, con un certo insieme di pensieri, ma si può e si deve agire».
Quale a suo avviso un esempio virtuoso di gestione di spazio urbano pubblico contemporaneo?
«È una buona domanda; sicuramente non sono un buon esempio le città che creano spazi verdi come fossero piattaforme usa e getta, costruzioni in cui inserire piante, alberi, arbusti, fiori come una vetrina di un negozio. Questo non possiamo ammetterlo. E questo, purtroppo, comincia invece a succedere quasi ovunque, l’inizio della superficialità dell’immagine, di una fotografia attraente per i turisti, che muove migliaia di persone.
Beh è una trappola, perché coltiva il niente, accudisce il nulla, nega quello che effettivamente è la costruzione del paesaggio, la produzione di dinamiche con sistemi di lunga durata, e di continuo compromesso. Non sappiamo più come si coltiva uno spazio verde da mantenere per decenni, con vegetazione viva, in un rapporto continuo di cura con le persone. E questo è il massimo del cattivo esempio.
Ma ci sono anche esempi virtuosi. Quello che ritengo sempre necessario nella struttura dello spazio pubblico è la difesa della continuità, che lo spazio non sia oggetto di tagli, discontinuità, di appropriazione, o limitazioni. Cosa che succede non soltanto per appropriazione del privato sul pubblico o per concessione dell’occupazione abusiva, ma anche per un disegno progettuale non inclusivo.
In questo senso penso spesso allo spazio pubblico di Napoli che, nonostante i suoi difetti, è un universo davvero capace di comprendere tutto, dove la strada è luogo di comunità: accogliente, profondamente inclusivo nel suo spirito, dove vediamo vivere tutti i tipi sociali, di tutti i generi, in una condivisione trasversale. Quindi, ancora prima della condizione progettuale, il paesaggio accade nella dimensione etica della comunità: qui comincia lo spazio pubblico e il progetto del paesaggio».
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