La piccola chiesa colorata dedicata a San Gennaro ha un disegno semplice: pochi gradini, quattro paraste, un rosone ottagonale. Sta in un bosco da fiaba, eletto il più bello d’Italia, che è il giardino di un Re, Carlo di Borbone: ampi viali curvilinei suggeriscono la vaghezza di un libero andare, mentre vialetti laterali si addentrano e scompaiono in un verde profondo. È un sogno realizzato, nel 1745, da un architetto senza laurea: il nobile napoletano Ferdinando Sanfelice (1675 – 1748). Un creatore di meraviglie, autore, a Napoli, di spericolate arditezze tecniche nel Palazzo dello Spagnuolo e nel Palazzo Sanfelice. Un ribelle, insofferente a regole restrittive alla sua fantasia. Così, quando, nel 1711, la legge emanata all’Ordine Gesuitico per evidenziare l’unica direzione verso l’altare (= verso l’Aldilà) ingiunge di usare la pianta a navata unica, Sanfelice, pur adottandola, fa ugualmente apparire meravigliosamente, con l’articolazione delle cappelle e disponendo stucchi e pitture, una sorta di stella: il bellissimo simbolo della Divinità. Alle prese con la chiesetta di San Gennaro opera del Sanfelice, oggi, a Napoli, c’è un altro grande architetto, un archistar: Santiago Calatrava, anche lui amante della libertà, delle arrischiate costruzioni e delle stelle. Sembra quasi che sia stato Sanfelice a sceglierlo, perché arredi, completandola, l’interno della sua chiesetta.
In realtà, Santiago Calatrava è stato chiamato dal direttore della Reggia – Museo e del Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, per realizzare “Nella luce di Napoli”, la mostra curata, insieme a Robertina Calatrava, dallo stesso direttore Bellenger. La mostra è alloggiata nel cellaio, il fabbricato dove, nel Settecento e oltre, venivano conservate le derrate alimentari, e al secondo piano della Reggia. Ne fa parte anche l’arredo della chiesetta di San Gennaro, dove Calatrava porta un’esuberante decorazione e si trasforma in arredatore globale. Vi porta sete di San Leucio (la fabbrica fondata nel 1778 dal Re Ferdinando IV di Borbone), pitture, (molto belle quelle, su vetro, della Crocifissione e della Deposizione di Gesù dalla Croce), porcellane e smalti, realizzati insieme agli allievi e ai Maestri della Real Fabbrica di Porcellana di Capodimonte, fondata nel 1743 dal Re Carlo e ora diretta da Walter Luca De Bartolomeis. Sono elegantissimi vasi decorati, candelabri, tabernacoli e tanti crocifissi formati da elementi vegetali e da fiori colorati, «Perché così la Croce è simbolo di rinascita», dice Calatrava. Monocromi, invece, sono i due pannelli ai lati dell’altare con il meraviglioso libero slancio di uccelli in volo. Mentre, nella pala dipinta dal pugliese Leonardo Olivieri (1689 – 1752), un benevolo San Gennaro dall’altare guarda i fedeli.
L’ansia di libertà del maestro catalano trova espressione anche nella calotta di un cielo blu profondo popolato da centinaia di stelle di porcellana ricoperte da oro zecchino: stelle a otto punte che, via via, si rimpiccioliscono, fino a diventare semplici punti di purissima luce. Anche Calatrava, come Sanfelice, ama le stelle. Forse anche lui ne conosce il segreto.
La riapertura della Chiesetta nel bosco, il 6 luglio scorso, è stata solennizzata dall’intervento dell’ambasciatore Alfonso Maria Dastis, del console Carlos Maldonado, del governatore della Campania Vincenzo De Luca e del ministro della cultura Dario Franceschini, che ha avuto parole di elogio per il direttore Bellenger e ha formulato un augurio per Napoli, la città ideale per un turismo culturale d’importanza mondiale.
E c’è un codicillo. Le stelle non hanno la forma delle stelle. Proprio così. E in un vocabolario, proprio a Napoli, ne è stato scoperto il segreto. Il vocabolario dice che la parola stella deriva dal latino sterula, diminutivo di astrum, che deriva dal greco aster. Poi mostra Asta, città della Spagna, (adesso Jerez de la Frontera) e Asti, città piemontese, nomi che evidentemente derivano da astu, parola greca che significa “città fortificata”, con le mura tutt’intorno. Lo stesso vocabolario riporta anche astacum = gambero e astercum = parietaria, che hanno la stessa radice ast-, perché i gamberi scappano in ogni direzione e la parietaria si abbarbica per ogni dove.
«Si victoria duis ast templum tibi voveo», è un’antica preghiera riportata da Appio Claudio Cieco (350 – 251 a C.). È una formula quasi magica, in cui è stata conservata da secoli passati, perduti nel tempo, questa parola antichissima, ast, che vuol dire “dall’altra parte” e che spiega l’origine delle stelle, enti luminosi nel libero cielo, guardati da tutte le parti.
Perché, da sempre, gli uomini, quando studiarono le stelle, si misero a guardarle da diversi punti di vista. E da ogni punto di vista partiva un angolo visivo, la punta di una stella. La parola “stella”, quindi, ha un’antichissima, lontana origine, a significare l’inspiegabile magia del mondo e l’ignoranza della ragione.
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