Il Palazzo H, parte del complesso del Foro Italico di Roma ed espressione dell’architettura fascista, a firma dell’architetto Enrico Del Debbio, è stato abbattuto. Non c’è più. Le ruspe hanno agito su questo edificio la notte scorsa, verso le cinque del mattino – ne hanno operato la distruzione. Nell’indifferenza più totale, dettata dalle priorità che affaccendano i nostri pensieri degli ultimi mesi. Il Covid-19, la fase 1, la fase 2 e intanto i progetti del “nuovo mondo” – di questa tecnocrazia digitale – in tutto il globo vanno avanti, procedono mentre i gruppi di resilienza – presenti ancora in ogni dove – vengono ignorati sempre di più. Così, alle cinque del mattino di una sera di maggio dell’anno 2020, ad essere abbattuto non è stato il Palazzo H di Roma, ma un’altra architettura di matrice fascista: il Teatro Kombetar di Tirana.
A firma dell’architetto Giulio Bertè e parte della imponente impronta italiana sul vecchio piano urbanistico della città. Parte del Boulevard voluto e costruito dagli italiani. Ex architetture coloniali di cui le popolazioni si sono riappropriate nel tempo, tanto da sentirle ora loro, qui come altrove. Sono divenute anch’esse – e paradossalmente – espressioni (mutatis mutandis) delle “realtà particolari” pasolianiane, di fronte alla forza di fuoco dell’omologazione architettonica a vetrate. Al posto del teatro difatti, verranno innalzati altri torrioni e un nuovo teatro di cemento e vetro.
L’ultimo masterplan della città di Tirana è stato immaginato e firmato, qualche anno addietro, da un’altra firma italiana: Stefano Boeri, lo stesso architetto che in questi giorni, sulle pagine di Repubblica, è coprotagonista di una conversazione a due voci, dove si recrimina una nostalgica scomparsa delle lucciole, evocando pasoliniane nostalgie e restando però indifferente di fronte all’abbattimento di un altro e quanto meno più contingente simbolo. Ovvero proprio il teatro Kombetar di Tirana e soprattutto la comunità che si stringeva intorno allo stesso. Peccato che proprio queste comunità sono oggi le “lucciole” da non far scomparire dal prossimo futuro.
Il Teatro Kombetar è un simbolo, occupato e presieduto negli ultimi anni da una schiera di cittadini, artisti, attori e registi, mai ascoltati dal primo ministro albanese Edi Rama.
Poche settimane fa, lo stesso Boeri ha invitato proprio Edi Rama sulle pagine web di Repubblica, in una diretta video in seguito all’affabulatrice mossa piazzata da Rama sul ring mediatico internazionale, ovvero: l’invio di 30 infermieri albanesi in Italia per l’emergenza Corona Virus. Come segno di vicinanza a un paese amico che li ha accolti e bla bla bla…
Il primo ministro, mentre con questa mossa si facevo bello e pulito come un colletto bianco, progettava invece l’abbattimento dell’architettura italiana (sempre in segno di vicinanza immagino), del Teatro Kombetar, per puri fini di speculazione edilizia inerenti alla turbo-gentrificazione in atto nel centro di Tirana.
Gentrificazione di cui lo stesso Stefano Boeri è più che al corrente.
Agli esponenti della comunità di artisti, registi, attori e cittadini albanesi che hanno lottato in questi anni per evitare l’abbattimento di tale architettura – cosa rimane ora loro da dire… forse che anche se il teatro non c’è più, un teatro (un’architettura che sarebbe dovuta essere tutelata magari con la collaborazione del silente stato italiano, sulla scia della monumentalizzazione Unesco avvenuta per le architetture fasciste di Asmara, per esempio), bene questo teatro anche se non c’è più – resterà un simbolo scolpito nella mente di chi ha preso parte alla lotta e anche per chi ha seguito questa storia – e un simbolo di resistenza e resilienza che ci si auspica possa divenire un monito per tutte le borghesizzazioni future. Contro tutte le mercificazioni dello spazio pubblico e delle nostre strade e piazze. Un simbolo. Il teatro Kombetar è un simbolo, oggi ancora più forte di prima.
E un simbolo, caro presidente Rama, non lo si può abbattere.
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Che grave vergogna per un popolo non riconoscere il valore storico nell’architettura.
L’Albania con questo gesto si pone all’ultimo posto in una scala di civiltà.