C’è un nuovo interesse globale verso il brutalismo, in grado di andare oltre il mondo della critica e gli stessi architetti, fino ad abbracciare artisti, viaggiatori inquieti, giornalisti, cultori d’arte e in generale appassionati di paesaggi contemporanei. Il brutalismo, nato come stile architettonico, oggi si percepisce non più come una vera e propria corrente teoricamente definita, ma assume piuttosto una forma estetica che attraversa gli stili. Rilanciato attualmente con successo attraverso pubblicazioni, report televisivi, videoclip, social network e blog, il brutalismo tra gli anni ‘50 e ‘70 ha contrassegnato il carattere degli edifici di molti architetti modernisti. Si distinse principalmente per l’uso rude e nudo del cemento armato sulle facciate, in cui la trama compositiva era ritmata dai calchi, lasciati dalle assi di legno delle carpenterie, una volta eseguiti i getti di calcestruzzo.
Il termine brutalismo deriva da béton brut (in francese “cemento grezzo”), oltre che da riferimenti all’art brut di Dubuffet e alla pittura informale. Il cemento armato a vista era esclusivamente adoperato nei primi del ‘900 per costruire sili e serbatoi. La sua potenza espressiva fu intuita e propagandata da Walter Gropius già dal 1911, dopo aver visto delle foto di granai del Midwest degli Stati Uniti. Quel prezioso report fotografico diventerà, grazie all’attività divulgativa di Gropius, un riferimento così influente da costituire le basi dell’architettura moderna in Europa. La dizione neo brutalism fu coniata per la prima volta da Hans Asplund nel 1953, e ben presto fu adoperata dalla giovane generazione di architetti inglesi (in primo luogo da Alison e Peter Smithson) i quali divennero i protagonisti di una nuova stagione sociale dell’architettura, più pragmatica e meno ideologica.
Nell’ultimo quinquennio è interessante notare quanto l’interesse del pubblico si sia rivolto in particolare verso il brutalismo italiano, scarsamente esaminato dalla critica istituzionale internazionale. La poca attenzione in Italia si è registrata poiché qui il brutalismo non ha avuto un percorso teorico lineare. Nato oltretutto in un periodo in cui predominava la dottrina del Regionalismo critico, il brutalismo peninsulare fu percepito perlopiù negativamente come un insieme di edifici sgraziati, a volte mastodontici, spesso politicamente scorretti, per nulla o poco amati dalle riviste più influenti. Insomma, sul brutalismo italiano ha pesato una sorta di giudizio morale di radice estetica e sociale, coinvolto com’era (vittima e carnefice) nei controversi fallimenti progettuali e pianificatori dell’edilizia residenziale pubblica delle grandi periferie.
Tuttavia, nei confronti del brutalismo italiano non sono mancate di recente forti attenzioni. Probabilmente gli ideali del formalismo tecnologico degli anni Novanta, l’idea di progresso e di fiducia nel futuro che ha caratterizzato gli inizi del secondo millennio, non riescono più a essere accolti con favore dalle odierne culture visuali. In un tempo di disumanità politiche, di sconvolgimenti ambientali e di angosce pandemiche che alimentano sempre più immaginari creativi postindustriali e distopici, il brutalismo sa ancora parlare al cuore dei più “duri” sentimenti umani come l’inquietudine urbana e il desiderio di fertili poetiche metropolitane. Insomma, si ha la sensazione di essere davanti alla codificazione di una sorta di nuovo (e al contempo decadente) “Sublime tecnologico”.
Nel 2019 è apparso, a cura di Luigi Prestinenza Puglisi, il numero di Cameracronica Magazine Art and politics. The Neapolitan Brutalist Architecture by Aldo Loris Rossi. 1932-1918, mettendo in evidenza le latenti e meno studiate inclinazioni dell’architetto campano verso l’estetica brutalista, a partire da un suo capolavoro: la Casa del Portuale. Nonostante versi in uno stato di completo abbandono, l’edificio napoletano di Loris Rossi ha avuto una vasta e inaspettata risonanza su svariati blog di architettura internazionali. Nel 2020 Ursula Hochreiter, per la trasmissione Galileo del canale tedesco Prosieben, ha curato Wer hier lebt ist gebrandmarkt, un intrigante servizio di cronaca sulle Vele di Scampia in cui ha focalizzato anche la figura del suo sfortunato progettista Franz Di Salvo. A luglio 2023 la casa editrice Zupagrafika ha pubblicato un insolito catalogo: Brutalia, una raccolta di edifici italiani considerati brutalisti costruiti nelle città di Genova, Milano, Napoli, Roma e Trieste. Alessandro Benetti ne ha scritto l’introduzione. Zupagrafika, fondata in Polonia nel 2012, è diretta da David Navarro e Martyna Sobecka. Si è specializzata nell’edizione di libri fotografici, e soprattutto grafici, che prevedono perfino il loro smontaggio così da poter costruire modellini tridimensionali.
Nel settembre scorso, il fotografo Roberto Conte e Stefano Perego hanno curato il volume Brutalist Italy: Concrete Architecture from the Alps to the Mediterranean Sea, edito da FUEL, una società grafica e anche casa editrice fondata nel 1991 a Londra, diretta da Damon Murray and Stephen Sorrell. L’introduzione è stata scritta dallo storico dell’architettura Adrian Forty, ex allievo di Reyner Banham. Peccato che Forty analizzi il contesto italiano in termini riepilogativi, citando esclusivamente opere appartenenti ai maestri, come fa anche Benetti in Brutalia. Sarebbe stato molto più stimolante se gli autori avessero pienamente sviscerato il nucleo della questione: l’architettura brutalista minore, una “atlantide di cemento” prodotta da progettisti a volte poco noti o addirittura del tutto sconosciuti, di cui i fotografi di Brutalist Italy e Brutalia ne hanno messa in luce tutta la sua potente energia.
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Bel articolo con ottimi spunti bibliografici per approfondire l'argomento