-
-
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
-
Stare sui tetti alla Biennale di Architettura di Venezia: il racconto del collettivo Post Disaster
Architettura
«Vi stiamo parlando dal futuro», questo l’annuncio dei progettisti di Post Disaster al quarto episodio 2023 della loro pratica collettiva, come scrivono spaziale, critica e curatoriale, Post Disaster Rooftops che dal 2018 si ambienta sui tetti di condomini nell’isola di Taranto Vecchia, quest’anno realizzato nell’ambito di Spaziale: Ognuno appartiene a tutti gli altri, per il Padiglione Italia alla Biennale Architettura di Venezia. Selezionati dai curatori Fosbury Architecture come capofila di un ampio progetto plurale che guarda a nove territori della provincia italiana, i Post Disaster hanno attivato il loro programma dal titolo Dalle Macerie / Out Of The Ruins e la restituzione degli interventi è in mostra fino al 26 novembre alle Tese delle Vergini nell’Arsenale veneziano.
Il tema del futuro è al centro, “il futuro che collassa nel presente”, oltre la realtà, “tra il reale e il possibile”, tra spazi urbani e privati, negli intervalli identitari personali tra idee condivise, dove l’esperienza con l’architettura preesistente, l’arte e il design contemporanei si incontrano in azioni collettive interdisciplinari.
Gli architetti Gabriele Leo e Grazia Mappa e i designer Peppe Frisino e Gabriella Mastrangelo hanno scelto il rooftop come luogo simbolico per agire e dal quale affacciarsi e ripensare lo “scenario urbano mediterraneo” e la città in particolare, oltre la crisi dell’industria siderurgica e il disastro ambientale e socio-culturale che ne deriva a livello glocale; tetti di volta in volta scelti tra quelli meno conosciuti o inaccessibili ai cittadini, riattivati da specifici set-design e attraverso modalità di fruizione, scambio, socializzazione e contaminazione, con il coinvolgimento della comunità locale e di quella internazionale di artisti, ricercatori e altri progettisti che guardano alla complessità urbana da altre prospettive.
La loro progettazione ambientale prevede una riappropriazione temporanea di “non luoghi”, piuttosto isolati o indefiniti per quanto panoramici ed evocativi, reinterpretati secondo modalità comportamentali di tutti gli attori coinvolti nel processo. “Interventi artistici che suggeriscono, fanno intuire, nuove modalità di abitare, vivere e riusare i luoghi per generare cambiamenti permanenti nel futuro”.
Tra i momenti più significativi dell’EP04 (che sta per extended play) della primavera 2023, a partire da una sessione di Tai Chi e Qi Gong sul tetto con Francesco Zita, a cura di Roberta Mansueto, e la sonorizzazione Nessuna natura di Donato Epiro, si è svolta l’assemblea aperta Be An Ally su ecologie creative ed esercizi progettuali territoriali, guidata da Ilaria Lupo, Martina Muzi e Ilenia Caleo, e ancora con Ilenia Caleo e Silvia Calderoni la performance thefutureisNOW? #3, un redesign dell’azione Zen for Head di Nam June Paik del 1962.
Il display al Padiglione Italia è infatti «Un assemblaggio di elementi mixed media che rievoca i giorni di programmazione sui tetti», dichiarano i Post Disaster, accompagnati dalla grafica di Michele Galluzzo e il sound di Gaspare Sammartano, per fare alcuni dei nomi tra gli altri collaboratori. «Agli esiti fisici delle azioni, come il telo prodotto dalla performance di Calderoni-Caleo e le sedute progettate per l’assemblea, si sovrappone un layer di tracce sonore: le conversazioni di partecipanti e abitanti, i suoni dell’infrastruttura urbana e i movimenti dei corpi che la abitano. Lo scopo è raccontare un processo in cui il contesto e l’opera si condizionano e informano vicendevolmente».
La ricerca e la pratica dei tarantini ha trovato così perfetta corrispondenza con le linee progettuali indicate dalla curatrice di questa edizione della Biennale, Lesley Lokko, che ha messo insieme la mostra internazionale come The Laboratory of the Future. E risponde alla visione del collettivo Fosbury sull’architettura come pratica di ricerca multidisciplinare e collaborativa, al di là dei manufatti e superando l’idea dell’architetto come autore.
Rivolgiamo loro la stessa domanda a cui questa 18ma Biennale di Architettura si impegna a rispondere: che cosa significa essere un agente di cambiamento?
«Significa produrre delle interazioni di senso con il contesto in cui si opera, operando in maniera processuale per limitare l’aspettativa di un risultato predeterminato, ma al contrario ponendosi in una dimensione di adattamento e ibridazione, in cui il progetto crea esitazioni, dubbi, domande. Il senso lo troviamo nel luogo, inteso come una combinazione unica (per quanto iscritta dentro processi sempre più globali) di spazi, storia, e comunità».
Dal 2018, in questo quinquennio che ha il passo di un secolo, ritenete che siano cambiate le urgenze dalle quali siete partiti?
«Dal 2018 sono cambiate tante delle condizioni iniziali del progetto. Ma è normale, vista la crisi ecologica e geo-politica che le regioni mediterranee stanno affrontando. Possiamo dire che l’urgenza generatrice di Post Disaster Rooftops è ancora oggi molto sentita: l’urgenza di decentralizzare, spostare la produzione del discorso critico dai contesti culturalmente privilegiati a quelli marginali e svantaggiati, dove la crisi non solo si può discutere ma anche, e soprattutto, vivere».
Nella rete delle nove stazioni territoriali di Spaziale al Padiglione Italia avete trovato riscontri che alimentano la vostra pratica? Avete instaurato alleanze?
«Le pratiche che si sviluppano in territori marginali sono spesso in dialogo tra loro; possono mancare occasioni di condivisione sul campo, ma non mancano alleanze d’intenti che permettono di condividere il senso dell’agire in questi contesti. Spaziale ha certamente aiutato a consolidare la rete, riconoscendo una sorta di “corrente”, una sensibilità comune nell’intendere il senso che devono avere l’architettura e il progetto oggi, attraverso l’utilizzo di linguaggi spesso diversi tra loro».
Qual è oggi il ruolo del practitioner?
«È difficile rispondere a questa domanda perché esistono tanti modi di interpretare il proprio ruolo. Questo dipende forse dal fatto che la figura del practitioner è ibrida: è progettuale, come un progettista, ma si prende la responsabilità di agire come attore in uno specifico contesto sociale e politico. I practitioner conversano con la società, condividono con cittadini e politici la responsabilità di far accadere qualcosa. In particolare, il lavoro del practitioner, che ibrida linguaggi e discipline, può rientrare nella definizione di Critical Spatial Practice ideata da Jane Rendell come “pratiche che lavorano a cavallo tra arte e architettura, che testano i limiti disciplinari e intervengono nei contesti specifici per far emergere e criticarne, le relazioni di potere sottese”».
“Disastro, decentralizzazione e agonismo”, sono le vostre tre parole chiave da decriptare…
«Sì, sono concetti alla base della pratica di Rooftops sin dall’inizio. Il “disastro” è un concetto importante perché racconta la nostra idea di parlare di locale e globale insieme: le nostre geografie personali ci legano a Taranto, una città etichettata con il termine “disastro” dagli anni ‘70, per cui abbiamo sentito l’esigenza di un “superamento” di questa condizione. Allo stesso tempo, vogliamo evidenziare come il disastro di Taranto non sia affatto locale, ma legato a doppio filo alla violenza del capitalismo globale. Da qui, la decentralizzazione, ovvero il mandato auto-proclamato di mettere Taranto sulla mappa della ricerca artistica e architettonica contemporanee, su scala nazionale e internazionale, contrastando la marginalizzazione culturale di cui è vittima. L’agonismo, invece, è più legato al “come”, al modo in cui abbiamo codificato la nostra pratica. È un concetto preso in prestito dalla sociologa Chantal Mouffe e sottintende l’intenzione di non usare l’arte pubblica in modo consolatorio, ma al contrario produrre sempre nuove esitazioni nello spazio urbano, ovvero mettere in discussione tutte le forme di egemonia che minacciano il progredire della diversità e della mescolanza».
Affermate che “stare sui tetti rappresenta un modo per rivendicare un’autonomia dalle retoriche, a tratti soffocanti, della rigenerazione urbana”, quali sono le condizioni per “abitare il post disastro”?
«Dal testo-manifesto che abbiamo scritto in occasione di Post Disaster Rooftops EP04: Abitare il post-disastro implica porsi in netta contrapposizione con la narrativa occidentale del 2050 che spinge il “punto di catastrofe” in avanti, in un momento futuro predeterminato tecnocraticamente. Il disastro è già avvenuto (siamo sopravvissut*? Cosa abbiamo imparato?) e il Mediterraneo è una crepa. La materia straborda, si rimescola, si genera un flusso (di corpi, risorse e tempi diversi) in cui il futuro collassa nel presente. I luoghi come Taranto sono avamposti della crisi globale, interstizi spazio-temporali che ci proiettano inaspettatamente in geografie/paesaggi infestati dove vengono negoziate nuove simbiosi improbabili».
Visualizza questo post su Instagram
Un post condiviso da Post Disaster Rooftops (@post.disaster.rooftops)