Alla fine di ogni anno ci ritroviamo a guardarci indietro per fare improbabili bilanci e, ogni anno, diventa sempre più difficile individuare l’architettura salvifica, il capolavoro a cui appellarsi per dichiarare che abbiamo svoltato e che un tempo nuovo sta sorgendo davanti a noi. Forse è questo il punto di vista sbagliato da cui ripartire, ovvero la ricerca di un evento messianico che ci salvi tutti, piuttosto che guardare alla somma di quelle micro-utopie a cui tendere per fare in modo che il nostro presente esca dall’incantesimo del tramonto tinto di rosa e azzurro del film di Barbie, successo indiscusso dell’anno appena passato e incredibile operazione di marketing esistenzial-commerciale che ha accarezzato gli occhi e le menti di chi è andato al cinema.
In alternativa propongo, come migliore architettura del 2023, la somma delle tende che gli studenti senza casa hanno montato nelle piazze d’Italia davanti a municipi e rettorati a denunciare la perdita di speranza e futuro per le nostre metropoli che preferiscono investire sul turismo high-spending mordi e fuggi piuttosto che sull’edilizia sociale dedicata alle fasce fragili, ma necessarie, della nostra popolazione. Una città che rinuncia ad accogliere gli studenti, che allontana anziani e giovani coppie, oltre che i nuovi cittadini di altra nazionalità, è destinata a morire per ipossia, ovvero mancanza di ossigeno.
È un tempo triste per l’architettura, che non è in cima all’attenzione mediatica e merita articoli sui giornali solo in occasione di scandali o di eventi straordinari, quando il suo destino, più silenzioso, è quello d’incidere sulla nostra vita quotidiana rendendola migliore, se il progetto è buono. Eppure questo è un tempo di grandi domande aperte sul nostro futuro, d’interrogativi urgenti a cui portare visioni spiazzanti e innovative che non siano necessariamente The Line nell’Arabia Felix o l’ennesimo edificio rivestito di verzura, entrambi pensati per scomparire alla nostra vista distratta, malgrado la loro mole.
Non è, forse, un caso che le ultime due biennali di architettura siano state pensate come domande aperte al mondo e che l’edizione di quest’anno, curata da Lesley Lokko, si sia confrontata con questo scenario grazie al titolo The Laboratory of the Future. L’evento veneziano è stato sicuramente il momento legato all’architettura di maggiore peso e rilevanza su scala nazionale e internazionale, soprattutto perché rappresenta una scommessa aperta con il nostro futuro e con il destino del continente africano, chiamato ad essere testimone delle due grandi sfide che attendono la nostra civiltà come la de-carbonizzazione e la progressiva de-colonizzazione del nostro pianeta. Forse le vere utopie verso cui tendere e a cui l’architettura dovrà fornire il suo contributo attivo e critico.
Non possiamo dire che questa Biennale passerà alla Storia come un evento epocale, soprattutto per la fragilità formale e concettuale di molte proposte in mostra, ma sono certo del suo valore simbolico per l’Africa e per le generazioni di giovani progettisti dal Sud del mondo. Il 2024 vedrà la fine del mandato di Roberto Ciccuto come presidente della Biennale di Venezia che, malgrado la parentesi pandemica ha dato un impulso all’istituzione molto importante con il lancio del nuovo Centro Studi e Archivio all’interno dell’Arsenale e la scelta di curatori tra arte e architettura figli di continenti e mondi culturali diversi e salutari per un cambio di prospettiva sul mondo che cambia.
Pietrangelo Buttafuoco è stato indicato come il prossimo presidente e, insieme al suo omologo in uscita, ha appena indicato Carlo Ratti come il curatore della Mostra Internazionale di Architettura del 2025; si tratta di una ulteriore scelta di cambio e rottura rispetto alle edizioni del secondo decennio di questo secolo che sembra fare evaporare ogni possibile narrazione sull’architettura come disciplina che vive un radicale cambiamento per trasportarla sull’ambito della metropoli, dei suoi fenomeni emergenti e del dominio della tecnica sulla forma. Dal neo-presidente Buttafuoco siamo anche in attesa di osservare l’indirizzo culturale e gestionale che imprimerà alla più importante istituzione italiana per le arti nel mondo e che si materializzerà con il suo insediamento durante il prossimo anno.
Sul versante delle grandi mostre registriamo la muscolare performance di Norman Foster al Centre Pompidou e la rassegna dedicata a Herzog & de Meuron alla Royal Academy di Londra, ma sicuramente la miglior esposizione dell’anno è quella dedicata a Paolo Mendes da Rocha alla Casa de l’Arquitectura di Porto per qualità curatoriale e dei materiali esposti.
Poco pervenuta Triennale di Milano (a eccezion fatta di Home sweet home e delle mostre dedicate a Basilico/Milano e a Vincenzo Castella), assente il MAXXI, forse per una transizione interna che ha reso la programmazione più fragile ma che, sono certo, porterà mostre ed eventi interessanti nell’anno a venire, mentre consiglio di seguire la programmazione continua, coerente e di alta qualità di Arc en Reve a Bordeaux diretta da Fabrizio Gallanti e del CCA a Montreal sotto la guida di Giovanna Borasi.
Evitando religiosamente la ricerca di capolavori sorprendenti che segnino un tempo nuovo, continuiamo a registrare la tradizionale contrapposizione tra la sequela di architetture muscolari e performanti sparse nelle metropoli del mondo a firma dei grandi studi/brand, quasi tutti localizzati tra Nord Europa e Nord America (Nord finanziario imperat). Mentre il nostro cuore batte per quel pulviscolo, spesso elegante e sofisticato, di opere di media-piccola taglia, alta qualità formale e budget contenuti prodotte da autori sparsi tra Spagna, Francia, Italia e Grecia.
Consiglio di seguire con maggiore attenzione il lavoro di una nuova generazioni di autrici e autori nei Paesi dell’Est Europa, così come il laboratorio di Città del Messico e le opere che arrivano a noi tra la Tailandia, il Vietnam e Singapore.
In Italia segnaliamo il lavoro sul Palazzo dei Diamanti di Labics, la scuola della Fondazione Paolo Barilla di Enrico Molteni con il Polo Educativo Inclusivo, la nuova “Villa Capriccio” l’ultima della serie delle abitazioni estratte dagli scheletri di cemento di Gambardella Architetti, i progetti residenziali di Elastico/Stefano Pujatti, il centro sportivo della Fiorentina di Archea, l’ampliamento dello storico edificio della Rinascente a Roma di Albini/Helg da parte di 2050+, oltre ai lavori recenti di Carlana-Mezzalira-Pentimalli, Matteo Ghidoni, Francesco Librizzi e Fondamenta che sono da guardare con attenzione se vogliamo credere in un progressivo risveglio dell’architettura d’autore e di committenti coraggiosi in un Paese sempre più timido e culturalmente reazionario. Il prossimo anno ci regalerà la fine del restauro molto ben fatto della Torre Velasca a Milano, un monumento del contemporaneo che attendeva un recupero attento e necessario.
Svanito rapidamente il sogno del Metaverso (chi l’ha visto?) emerge quest’anno la relazione tra progetto, visione e l’Intelligenza Artificiale, che non è l’ennesimo altro-mondo in cui scappare ma un fenomeno culturale e tecnologico che avrà un importante impatto sul mondo dell’architettura e sulla gestione delle metropoli nel mondo. Siamo solo all’inizio di un lungo viaggio. Anche quest’anno registriamo l’assenza di una Legge per l’Architettura da parte delle nostre istituzioni, mentre il nuovo Ministro delle Infrastrutture, oltre a pensare al Ponte sullo Stretto, ha riformato il Codice degli Appalti dove, ancora una volta, registriamo la bassa centralità del concetto di qualità costruttiva e abitativa a discapito della produttività e performatività delle procedure.
Il 2023 ci ha privato di alcuni giganti che è giusto ricordare come Andrea Branzi, straordinario intellettuale visionario del design e dell’architettura, Paolo Portoghesi che ha segnato con la sua Strada Novissima la cultura del Post-Moderno, Italo Lupi maestro assoluto dalla grafica italiana e internazionale e Jean Louis Cohen, uno degli storici contemporanei più illuminanti e sofisticati di questi ultimi decenni. La loro libertà intellettuale mancherà molto.
Un’ultima nota laterale, ma complementare al mondo dell’architettura, ovvero che la comunicazione e promozione nel mondo del nostro patrimonio artistico costruito e immaginato non si debba più affidare ad azioni come “Open to Meraviglia”, ma a investimenti reali, seri ed evoluti capaci di mettere insieme nuove generazioni di artisti, architetti, imprenditori, scienziati, narratori ed educatori capaci di dare forma a quelle innovazioni che chiede un mondo in profondo cambiamento.
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