Può spiegarci che significato ha, da un punto di vista strettamente curatoriale, proporre tre domande (Può essere la modernità, la nostra antichità? Che cos’è la Nuda Vita? Che cosa dev’essere fatto?) come leit motiv per Documenta 12?
Le tre domande si pongono fuori dalla nostra ricerca, nella scelta curatoriale non c’è stato il tentativo di mettere in relazione le domande con le opere della mostra. Piuttosto esse hanno fornito il mezzo per generare la discussione intorno alla mostra, per aprire la strada ai giornali di Documenta e per essere punti di entrata (o di partenza) per il pubblico durante la mostra.
Nonostante la globalizzazione dilagante, può spiegarci cosa l’ha spinta a scegliere tre questioni che tutto sommato restano inscritte nel solco della tradizione culturale occidentale? Il primo quesito sul rapporto tra Moderno e Antico sembra rimettere in moto una querelle di matrice tutta europea che nasce proprio in seno al moderno. Per il quesito della Nuda Vita la paternità è di Walter Benjamin e poi ripresa da Giorgio Agamben. Per il terzo quesito, stando a quanto da lei stesso affermato, l’origine starebbe nella famosa domanda del saggio di Lenin. Che importanza ha per lei l’approccio teorico-filosofico?
Sebbene la terminologia e il terreno filosofico delle domande provengano da una tradizione europea (e ad essere onesti, documenta è una mostra europea, nonostante le sue pretese globali), esse però sono anche domande che possono trascendere questa parentela. Possiamo vederle applicate in molteplici modi e in diversissimi contesti, con un uso dei riferimenti originari abbastanza libero. La modernità è una questione caldamente dibattuta in India o in Brasile quanto in Germania. Ponendo le domande internazionalmente attraverso il progetto dei giornali, e a Kas
Perchè secondo lei negli ultimi anni abbiamo avuto una proliferazione del modello biennale? Pensa che in futuro potrà esserci una proliferazione del modello documenta?
Le biennali sono diventate in larga misura un riflesso del marketing internazionale. Esse tendono a presentare gli stessi artisti e usare gli stessi curatori come marchi, nel tentativo di attirare capitale e prestigio per la città ospitante. Con il risultato di ottenere una scarsa relazione tra la storia, la situazione attuale della città e la sua locale comunità artistica, a favore piuttosto di una borghesia mobile e globale. Documenta non è interamente fuori da questi meccanismi ovviamente, ma ha una storia particolare e una logica strutturale che le permettono un alto livello di libertà curatoriale e intellettuale. Non sono sicuro di quali aspetti di documenta potrebbero proliferare come modello- forse un’esibizione tenuta ogni cinque anni, ogni volta con un direttore diverso? Se questo modello fosse imitato, non potrebbero comunque mai esserlo la storia e il contesto.
Quanto importante è per lei la scelta del tema in una mostra d’arte contemporanea?
Preferisco pensare in termini di proposizioni o di dialettica piuttosto che di temi che suggeriscono sempre una lettura delle opere d’arte come illustrazioni, o come funzioni soltanto di un singolo livello.
Nel 1955 per la I edizione di Documenta Arnold Bode fu capace di creare un’interazione tra le opere d’arte, il luogo scelto e il pubblico. In questa d12 a chi si darà maggiore importanza? Forse al pubblico?
Una delle grandi qualità di documenta del 1955 fu proprio l’attenta articolazione di queste tre relazioni ponendole su un piano di parità, e ciò è stato molto istruttivo per noi nello sviluppo di d12. Abbiamo preso in considerazione le particolarità di ogni luogo e sviluppato un allestimento che si mette in relazione con l’architettura, il pubblico e l’arte. Il padiglione in Karlsaue, per esempio, è stato progettato come una struttura aperta con l’intento di stimolare esperienze estetiche.
Ma a quale pubblico si rivolge d12, a un pubblico più giovane del solito?
Il pubblico di Documenta è vasto e vario, per molte persone l’unica mostra d’arte contemporanea possibile da visitare. L’età del pubblico è abbastanza uniformemente distribuita ma circa la metà è sopra i quaranta.
Lei ha molto parlato di migrazione delle forme soprattutto in termini di contrapposizione alla globalizzazione delle forme. Può l’opera di Ricardo Basbaum Would you like to partecipate in an artistic experience? (non a caso un’altra domanda), essere considerata l’opera che in qualche modo rappresenta lo spirito di d12?
L’opera di Ricardo Basbaum è stato il progetto inaugurale per Documenta e certamente legato alle questioni chiave della mostra. È una traslata forma modernista senza chiare origini, che richiama sia un ortodosso modernismo europeo, sia l’arte brasiliana concreta e neo-concreta. Quest’opera mette la soggettività tra l’individualità (chi decide di vivere con l’oggetto per un certo periodo di tempo) e l’aspetto sociale (la persona fa delle scelte circa l’uso dell’oggetto e quindi documenta il processo attivamente, legandolo alle esperienze vissute). Il progetto richiede un livello di impegno e di devozione da parte del pubblico e stimola nuovi tipi di relazione.
La sua filosofia curatoriale è all’opposto della mostra-vetrina. Per lei la mostra dev’essere un medium. Pensa davvero che questo sia possibile per mostre dalle grandi dimensioni come Documenta o le biennali più affermate. Non si rischia la dispersione della funzione-medium della mostra?
Una delle cose principalmente più stimolanti quando si organizzano mostre d’arte è che si trova sempre qualcosa di estraneo che non si conosceva o non si capiva prima. Noi cerchiamo di dividere questa esperienza con il pubblico, tenendo conto dell’improvvisazione, del rischio e del processo di apprendimento. Se già sapessimo esattamente come documenta si svolgerebbe, non ci sarebbe più interesse per noi come per qualsiasi altro.
Il primo tema da lei pensato per questa d12 era “La fine del capitalismo”, perchè ha poi deciso di cambiare?
Il processo curatoriale è un continuo sviluppo, con l’arte si aprono sempre nuove porte.
Cosa pensa del Grand Tour che quest’anno riunisce Documenta, la Biennale di Venezia, la grande fiera di Basile e lo Skulptur Projekte di Münster, non le sembra il ritorno di un vecchio modello culturale che rimette l’Europa al centro?
Guardando oltre l’Europa, sembra invitare piuttosto a un certo livello di ansia, nella speranza che questo possa essere solo una fase di passaggio.
Dopo molti anni documenta ha di nuovo un direttore tedesco è per questo che sente molto forte il legame con le origini, con la I edizione di Documenta?
Noi tutti conosciamo i rischi di porre l’identità lungo i confini nazionali. Ciò che ci ha colpito della I Documenta è che ci ha riportati alle ragioni iniziali che spingevano a conservare una mostra di tali dimensioni e a una metodologia che nasceva da una realtà locale. Ciò toglie molte attese e proiezioni che circondano la mostra.
Oltre la I edizione, quali altre edizioni di Documenta hanno influenzato la sua?
Ogni Documenta ha la sua propria caratteristica capace di generare nuovi tipi di discussione sullo stato dell’arte contemporanea. Alcune edizioni sono state particolarmente abili nel catturare il loro momento. Ogni edizione può anche essere letta in relazione a ciò che è stato fatto prima. Questa continuità, come suggerisce il logo di Documenta, informa il presente.
maria paola spinelli
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italian weding style
Purtroppo assistiamo a una forma di decadenza sia morale che intellettuale,fra un po non sapranno piu cosa fare, quando avranno bruciato le ultime candele della LUCE DELL'ARTE.
AUGURI
un intervista più inutile estucchevole di questa era difficile farla, compliomenti a tutti e due per la sublime nullità espressa