Incontro Emily in occasione della mostra che ha allestito insieme a Laura White alla Standpoint Gallery di Londra. Emily lavora part-time come coordinatore delle attività artistiche organizzate negli ospedali di Hammersmith a Londra: un lavoro impegnativo che senza lasciare tracce letterali ed evidenti nella produzione dell’artista, pure rappresenta il quotidiano tentativo di ritrovare, in una sorta di “estraneata” bellezza, un motivo forte per sopravvivere nei luoghi della sofferenza e dell’ abbandono urbano.
Emily ha studiato scultura al Royal College. Ricordo di aver già notato il suo lavoro in una mostra presentata in un particolare spazio espositivo: la vecchia stazione metropolitana di Aldwych nella City, oggi abbandonata. Già allora i paesaggi di Emily Allchurch parlavano di una urbanità iperreale, i cui colori e luci insieme disturbavano ed affascinavano. Mentre Emily si prepara ad una prossima mostra estiva alla Orleans
Perché la scelta del paesaggio e la presenza sempre più accentuata di una dimensione panoramica nel tuo lavoro?
Costruisco paesaggi perché sono principalmente interessata agli ambienti in cui scegliamo di vivere e al loro impatto sulla nostra identità. Sono soprattutto attratta dagli spazi urbani dove l’interazione dell’uomo con il territorio raggiunge il culmine. Adotto il paesaggio come filtro per commentare la vita moderna – per fare letteralmente un passo indietro ed esaminare una “fetta di vita”, a distanza.
Nei primi lavori sapevo di controllare e limitare lo sguardo dello spettatore, attraverso l’uso di immagini chiaramente selezionate e ritagliate. L’espansione del campo di osservazione nel lavoro recente sembra offrire allo spettatore ‘una visione più ampia’, consentendo una maggiore partecipazione allo spazio. Il paesaggio si rivela come un percorso in cui l’occhio viaggia nel ed attraverso il lavoro, creando una situazione associabile alla lettura dello spazio cinematografico. L’immagine ha più a che fare con un luogo specifico, catturato nel tempo.
Cosa rappresenta la luce nel tuo lavoro?
La luce è elemento primario e molteplice nel mio lavoro. Al livello più elementare, lavoro con l’immagine fotografica, che è di per se’ il processo con il quale la luce viene catturata e “annotata” su film, su carta. La ‘luce’ nelle immagini risultanti viene poi manipolata attraverso tecniche digitali per mettere in rilievo la realtà rappresentata, creando ambienti che appaiono allo stesso tempo stranamente sgomenti, iperreali.
La serie di lavori sul tema del ‘crepuscolo’ tratta in particolare della qualità unica della luce naturale nel momento di transizione dal giorno alla notte – una luce che è insieme seduttiva, eppure disorienta ed è potenzialmente pericolosa, perché la visibilità degli oggetti rapidamente si riduce. Non è una coincidenza che la maggioranza degli incidenti automobilistici e dei crimini hanno luogo sotto questa luce indistinta che confonde ed oscura.
Presento il mio lavoro in light-boxes. La luce artificiale viene perciò adottata nella sua fisicità per illuminare le immagini dal retro della carta fotografica, aggiungendo un senso di teatralità e messa in scena al lavoro. Adotto la luce in queste varie modalità come uno strumento per sedurre lo spettatore ed intrappolarlo in un paesaggio che altrimenti sfuggirebbe alla sua attenzione o che eviterebbe.
Fino a che punto pensi che l’adozione di certe polarità (ad esempio luce ed oscurità, lontano e vicino) è importante nel tuo lavoro?
Direi che c’è sempre una sotterranea contraddizione ed un contrasto tra il tipo di paesaggio rappresentato ed il modo in cui viene presentato. Scopro i miei soggetti viaggiando per la città, andando alla ricerca di potenziali scenari. Tuttavia, i paesaggi che mi interessano non sono convenzionali vedute urbane, ma spazi industriali e dilapidati, lontani dagli itinerari turistici. Attraverso il processo fotografico, queste zone di passaggio sono sublimate, collocate ad un livello diverso rispetto al quotidiano, bloccate nel tempo e presentate in una luce estranea.
Nella serie dei ‘Panoramic Landscapes’, il colore dei paesaggi viene intensificato come in una sorta di artificiale estetizzazione dell’immagine, che insieme attrae e disturba. In Panoramic Landscape No.1 nuvole giallo-zolfo dalla presenza minacciosa appesantiscono il paesaggio sotto un soffocante lenzuolo ed il verde intenso del canale in Panoramic Landscape No.2, se fosse reale, potrebbe suggerire un grave processo di contaminazione dell’ambiente.
La serie dei ‘crepuscoli’ si basa più sulla luce naturale e sull’impatto psicologico del cadere della notte. Di nuovo i paesaggi attraggono, impiantati come sono in tratti di luce blu. Tuttavia sono anche densi di un senso di minaccia od urgenza: questi spazi urbani totalmente isolati non ispirano sicurezza di notte. Il passaggio dal giorno alla notte gioca in parallelo al passaggio dal luogo sicuro al potenziale pericolo.
Cosa ne pensi del rapporto tra il tuo lavoro e quello di Laura White, come presentato alla Standpoint Gallery?
È stato interessante lavorare con Laura White per questa mostra: nonostante che i nostri lavori tocchino simili motivi, vederli insieme mi ha reso consapevole del nostro diverso modo di comunicare. Entrambe adottiamo l’immagine fotografica mediata e la luce per creare “atmosfere”, esaminando aspetti dell’ esperienza urbana, della finzione e dell’ iperreale.
Il lavoro di Laura White ruota anch’esso attorno alla definizione di certe polarità, come l’interfaccia tra i paesaggi urbani e rurali ed il rapporto tra effimero e permanente. Laura proietta diapositive di paesaggi sfuocati su modelli di costruzioni architettoniche, creando affascinanti unità di costruzione che mettono in questione il rapporto ibrido tra l’esperienza reale del paesaggio e la sua costruzione artificiale.
I nostri lavori condividono un certo gusto teatrale nell’uso dell’illuminazione artificiale per alterare l’esperienza e la percezione del reale. Tuttavia, laddove il lavoro di Laura White chiaramente rivela i meccanismi della sua costruzione, invitando lo spettatore ad interagire, le mie light-boxes presentano una messa in scena più contenuta che resiste alle influenze esterne. La natura effimera dei lavori di Laura crea uno spazio immaginario e risulta in una interpretazione generale dell’esperienza urbana. Il mio immaginario fotografico risulta in una lettura che è più attenta ad un tempo ed un luogo specifici.
Come pensi di rispondere alla opportunità che ti è stata offerta alla Orleans House, in un luogo la cui specificità sembra impossibile evitare?
La mostra alla Orleans House è stata organizzata all’interno delle celebrazioni per il centenario della
Ho deciso di esplorare ogni aspetto di questo ambiente, di dare un’occhiata a cosa si può nascondere dietro l’istantanea del turista. È interessante notare, quando ci troviamo di fronte a ciò che chiamiamo un paesaggio perfetto, quanto di fatto ci lasciamo sfuggire e quanto scompare completamente alla nostra vista, offuscato dalla nostra ricerca dell’ideale utopico. Sicuramente ‘la vista’ da Richmond Hill è straordinaria, eppure è in parte sciupata dall’esistenza di piloni e grattacieli. Anche qui, le targhe contenenti informazioni per il turista sono coperte di graffiti, diversi angoli sono lasciati incolti e non sono molto sicuri di notte, e alle nostre spalle c’è il costante e fastidioso rumore degli aerei che volano bassi in prossimità dell’aeroporto di Heathrow.
Sono questi aspetti del paesaggio che ho scelto di esplorare nel lavoro che presenterò alla Orleans House. Di nuovo lavorando all’interno della polarità tra le nostre aspettative in un certo ambiente e la sua ri-presentazione. Il linguaggio della fotografia sembra del tutto consono a questo angolo così prettamente turistico e View from Here fa riferimento specificatamente all’abilità fotografica di valorizzare una vista. Proprio come nel XIX secolo quando Kodak piazzò diverse insegne all’ingresso di molte città americane elencando cosa fotografare ed indicando dove i visitatori dovevano sistemarsi con le loro macchine fotografiche, allo stesso modo in View from Here lo sguardo del visitatore/spettatore è guidato e controllato.
Irene Amore
Intervista realizzata il 28 maggio 2002.
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