A febbraio 2005, non appena nominato direttore della dodicesima Documenta di Kassel (16 giugno-23 settembre 2007), Roger M. Buergel venne invitato dal Centre Pompidou a tenere una conferenza pubblica. Un’occasione che deluse quanti si aspettavano di conoscere la lista degli artisti invitati con più due anni d’anticipo. Come un archeologo della Modernità, Buergel s’intrattenne a lungo sulle condizioni socio-politiche della prima Documenta del 1955. Una prudenza e una riservatezza mantenute anche durante questo secondo incontro, svoltosi pochi giorni fa nel solito sottosuolo del Pompidou.
Ancora una volta, nel corso di una conferenza ritmata dalla proiezione d’immagini contrastanti –come una scultura di Rodin a Miami e le ultime Ferrari in mostra sulla stessa strada– non vi è stato modo di conoscere gli artisti invitati. Non resta dunque che chiedersi: in che modo singole opere provenienti dai quattro angoli del mondo saranno capaci di incarnare idee curatoriali forti? È un problema tipico di una rassegna ambiziosa come la Documenta, al punto che è difficile credere a Buergel quando, già nel 2005, sosteneva che “l’unico metodo è l’improvvisazione”. Kassel non è Venezia. Se è vero che, come confessato pubblicamente, in questi ultimi anni il direttore non ha moltiplicato il numero di mostre e atelier visitati, nondimeno ha innescato un’attività febbrile di forum e di discussioni pubbliche. I risultati confluiranno nella pubblicazione di numeri speciali di riviste, le prime tre previste per dicembre.
Tuttavia, se Enzeworaveva fatto precedere la Documenta del 2002 da cinque piattaforme di incontri avvenuti in luoghi lontani dalla geopolitica dell’arte contemporanea (tra cui Lagos e New Delhi), mai come in quest’occasione è stato valorizzato il contesto locale. Sottintesa, quanto palese, è la polemic
Tra i diversi propositi, Buergel si augura che la mostra sia un’occasione per portare all’attenzione pubblica la condizione di quel 10% di russi che vivono a Kassel e che, per uno strano destino storico, non parlano il tedesco. Una situazione paradossale perché, in quanto cittadini tedeschi, non hanno il diritto di usufruire dei corsi pubblici di lingua, gli stessi che hanno permesso una migliore integrazione sociale della comunità turca. Il titolo dell’intervento di Buergel è del resto la “migrazione delle forme”, un processo che coinvolge meno l’elaborazione delle opere che la produzione delle soggettività: dell’artista, del critico, dello spettatore come del semplice cittadino. Buergel crede, al di là d’ogni nostalgia utopica, che una mostra come Documenta debba incidere su queste dinamiche, trasformandosi in un’esperienza sociale e politica, in una comunità temporanea di singoli che mette in atto tecniche di resistenza alla delegazione del potere.
Dalle parole del curatore è insomma chiaro che Documenta si sta sforzando di creare il suo pubblico. In questo senso, più di uno spettatore è rimasto colpito –e perplesso– dal suo uso insistito di Bildung, un concetto più che una parola, che in tedesco designa tanto la cultura quanto la formazione e l’educazione. È uno dei punti cui Buergel tiene di più, convinto della necessità di riscrivere e riappropriarsi d’alcuni concetti chiave della modernità. Questa Bildung resta così da reinventare.
E l’energia –economica ma anche intellettuale– convogliata da Documenta sarà in grado d’innescare un tale processo, una macchina che fabbrica dissenso attraverso la circolarità degli sguardi. “Per la sua sopravvivenza, l’umanità è tenuta ad elaborare collettivamente, su scala planetaria, una modernità a venire, una modernità post-occidentale”, sottolinea Buergel. Che continua: “Quando l’arte diventa una vera e propria industria, la possibilità di identificare questo progetto con le nostre istituzioni culturali richiede una metodologia sottile al di là delle false promesse della Pop, dell’accademizzazione dell’intelligenza e del feticismo della merce”. Documenta si avvicina, dunque. Attenzione.
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