Se, come suggerisce Riccardo Venturi (sempre su Exibart), il Musée d’Art Moderne al Palais de Tokyo ha riaperto i battenti per mostrare un restyling di poca fantasia, il Pompidou preferisce puntare –rischiando- su un evento degno di questo nome. Il Big Bang in questione è, secondo la terminologia usata dagli addetti ai lavori, un totale rédeploiement delle collezioni permanenti, un ripensamento sostanziale dell’allestimento di tutte le proprietà del museo (un patrimonio di oltre 50.000 opere).
Catherine Grenier, curatrice di questo ardito rifacimento, ha preteso dai suoi numerosi collaboratori che il modello tradizionale di allestimento, nel quale le opere appaiono ordinate cronologicamente, o per grandi e riconosciute correnti storiche, fosse del tutto abbandonato. Al suo posto, un nuovo modello in cui l’atto creatore dell’artista moderno, il suo impulso creatore e distruttore risultasse il perno dell’esposizione.
Nasce così una galassia di otto costellazioni che prendono il nome di: Distruzione, Costruzione/Decostruzione, Arcaismo, Sesso, Guerra, Malinconia, e Réenchantement (Nuovo Incanto). Dopo questo primo volet, il museo subirà una seconda radicale revisione: Le Mouvement des Images (apertura il 5 aprile 2006), sezione in cui il cinema dialogherà con le altre arti per aprirsi sul tema del digitale e nuovi media, in una rilettura della creazione del XX secolo che si preannuncia altrettanto “scombussolante” di Big Bang.
Nella storia del Pompidou, Big Bang è di fatto la prima mostra a carattere tematico, interdisciplinare e non cronologico. Tutta la collezione è riassunta
È innegabile, si tratta di un allestimento che disturba e solletica. Da una parte è impossibile seguire il filo logico che lega tutti gli accostamenti e le singole sale. Dall’altra, anche l’occhio più critico è costretto ad affermare che alcuni parallelismi illuminano di una nuova luce anche capolavori visti e rivisti.
Perché non inserire nel primo caso la voce Sesso all’interno della categoria Arcaismi? Un’opera come quella di Louise Bourgeoise Cumul I (1968), una delle sue chiare allusioni al membro maschile, sarebbe così rientrata felicemente in quella grande categoria del Primitivismo, in cui istinto sessuale e ricerca della purezza vanno spesso a braccetto. Così come il tema della Mariée (la Sposa), inserita nella sezione Sesso non avrebbe stonato se affiancato dal riferimento alla Vergine, intesa come primo elemento femminile in quasi tutte le religioni arcaiche.
Straordinario, invece, il dialogo che nasce tra la ripetizione serigrafica ma imperfetta del viso di Liz Taylor (Andy Warhol, Ten Lizes, 1963) e i primi piani multicolore dei volti leggermente deformati di Marlene Dumas (Mixed Blood, 1966). Anche perché, a questo primo riuscito confronto, se ne aggiunge un secondo: nella stessa sala è presente una delle Antropometrie di Yves Klein e una serie di Nudi di schiena di Matisse (bassorilievi in bronzo nei diversi stati di lavorazione). Il risultato che si ottiene facendo scorrere lo sguardo a trecentosessanta gradi è sorprendente: i ritratti a grande scala delle prime due opere “forniscono” i volti alla serie di busti senza testa delle ultime due.
Si potrebbe continuare su questa linea a lungo e non giungere mai ad un giudizio definitivo sull’insieme dell’allestimento. Il finale, se si segue il percorso consigliato, è senz’altro azzeccato: nella sala del Réenchantement il video di Bill Viola del 2001, Five Angels for the Millenium, coincide perfettamente con il tema del meraviglioso, dell’utopia, del sacro esposto in questa ultima sezione. “La nostra cultura ha evacuato lo spazio della contemplazione. Non esiste più un luogo ufficialmente consacrato all’esperienza soggettiva in essa. È l’arte che riempie quel vuoto”, dichiara Bill Viola da profondo conoscitore di religioni e teologia quale è.
È sicuramente una visione ottimista quella che chiude Big Bang, effimera ma coraggiosa presa di posizione da cui è nato un nuovo volto del Pompidou. Difficile stabilire, prima di osservare la seconda tappa di questo redéploiement, se si tratti di un adeguamento ad un pubblico contemporaneo stanco di un sapere enciclopedico che non raggiungerà mai, oppure di un vero tentativo di ripensare la museografia nel senso di “laboratorio, ai cui esperimenti il pubblico è invitato a partecipare”, come voleva il primo direttore del MoMA, Alfred Barr.
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