14 febbraio 2005

Direzione Kassel

 
L’unico metodo è l’improvvisazione. Parola di Roger M. Buergel, designato curatore della prossima Documenta del 2007. Che però riguardo la rassegna di Kassel ha già due o tre cose ben chiare. Tanto da annunciarle in anteprima in un incontro al Centre Pompidou di Parigi. Ecco cosa ha detto. Alle prese con l’antichità del moderno, con i confini e con il ruolo delle pratiche artistiche…

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Rispetto alla Biennale di Venezi, Documenta di Kassel -la più importante rassegna d’arte contemporanea in Europa assieme alla kermesse veneziana– si tiene ogni cinque anni. Uno spazio che permette al curatore una riflessione articolata sui temi portanti dell’esposizione, al punto che, davanti a tante edizioni scolorite della biennale, ognuna delle undici Documenta ha una sua fisionomia precisa, specchio fedele del momento storico e artistico che ha attraversato. Non sorprenderà dunque che Roger M. Buergel, designato direttore artistico dell’edizione che aprirà a giugno 2007, abbia già le idee chiare sulla Documenta XII. Tanto chiare da esporle step by step in un recente incontro pubblico che ha avuto luogo al Centre Pompidou di Parigi.
Tre gli assi principali: in prima istanza la Modernità che è diventata –giocoforza- la nostra antichità, ovvero un periodo ormai tramontato, ma con cui è necessario fare i conti. Come viene letta la tradizione moderna nei paesi non occidentali – dalla Russia post-sovietica al frastagliato mondo arabo – in cui spesso è stata iscritta nel territorio assieme alle logiche del colonialismo? Poi il rapporto fra individuo e potere sovrano, in un periodo in cui – a livello individuale quanto collettivo – si ripensano profondamente concetti come la sovranità dello Stato e la cittadinanza legata ad un territorio. Che ruolo giocano le pratiche artistiche e come ripensare le intersezioni con l’agire politico? Quindi il ruolo dell’educazione, cioè della trasmissione del sapere soprattutto locale, dall’università ai movimenti sociali. Come rappresentare i saperi locali? Esiste un roger buerghel terreno d’incontro fra le rivendicazioni internazionali più radicali portate alla ribalta da un’invasiva manifestazione artistica e quelle a scala ridotta proprie della città ospitante?
Un aspetto, quest’ultimo, caro al curatore e finora poco trattato, in aperta polemica con la moltiplicazione commerciale dei punti Guggenheim. Adottando un taglio storico, nella sua conferenza Buergel si è concentrato soprattutto sulla prima Documenta del 1955, un periodo in cui la città finiva d’esser ricostruita secondo un progetto concepito a suo tempo dagli stessi nazisti. Allora le opere di Mondrian e Picasso erano appese a muri ancora scrostati, con le finestre coperte da tende svolazzanti che ricordavano più un interno borghese che uno spazio museale. Eppure era presente quella fusione tra edificio, architettura e opere che faceva dell’esposizione un nuovo medium. Proprio ciò che oggi abbiamo bisogno di riarticolare.
Queste riflessioni, per quanto accennate, prenderanno pienamente forma fra due anni, eppure è giocoforza notare quanto l’impostazione di fondo sia fedele alla tradizione delle Documenta, in cui le dinamiche politiche hanno sempre avuto un ruolo cruciale, come confermano del resto le ultime due edizioni (C. David nel 1997; O. Enwezor nel 2002). E se Buergel sostiene che “l’improvvisazione è l’unico metodo”, l’impressione è che in realtà l’esposizione sia già ben strutturata e che metta sullo scacchiere questioni di cui le pratiche artistiche hanno colto l’urgenza. Un ultimo appunto: sembra sempre più appropriato parlare di pratiche artistiche piuttosto che di opere, per lasciarci alle spalle un linguaggio che abbiamo ereditato con la sua zavorra storico-critica e che non ci aiuta più ad orientarci. Ed è a questo del resto è sempre servita Documenta.

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riccardo venturi

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