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Documenta 11: La marginalità al centro
around
La marginalità al centro. Questa l’idea curatoriale perseguita con coerenza nell’ultima edizione di Documenta. Coerenza che si mostra nella scelta degli artisti, per la maggior parte provenienti dal mondo non occidentale; nella scelta dei contenuti, realtà di disagio, di povertà, di guerra…
E fin qui siamo d’accordo con le critiche finora mosse a Documenta: il politically correct trionfa a scapito del senso estetico; il contenuto drammatico prevale sulla forma chiamata ad esprimerlo ed opera risvegliando insieme all’ancestrale senso di colpa dell’uomo occidentale, l’attenzione ad opere né intellettualmente stimolanti né esteticamente attraenti.
Ma il punto di forza di questa edizione di Documenta è il trasferimento di questo concetto di ‘marginalità al centro’ alla forma dell’esposizione. Emblematico da questo punto di vista il capovolgimento di prospettiva a cui ci costringe la visita al monumento di Bataille di Thomas Hirschhorn: dalle zone espositive, luoghi tradizionalmente destinati alla visita, uno sgangherato taxi improvvisato porta il visitatore incosciente in un quartiere periferico di Kassel abitato prevalentemente da immigrati turchi, dove Hirschhorn ha costruito un piccolo centro sociale di cartone consistente in una biblioteca ed in un bar. Il visitatore, destabilizzato e spaesato, si ritrova scaraventato in una realtà sociale con cui deve necessariamente interagire, altro che le decine di documentari di cui era stato spettatore nei rassicuranti spazi dell’esposizione. Così le installazioni ambientali disseminate nei giardini dell’Orangerie si rifanno non solo per il loro posizione nella mostra ma anche per la loro forma estetica ed i loro contenuti alla dispersione, alla fuga verso luoghi esotici e lontani (A plan for Escape di Dominique Gonzalez-Foerster e le installazioni sonore di Renée Green, liste di nomi di luoghi utopici).
La lista, il dato puro è un altro elemento fondamentale di questa Documenta: la centralità spaziale nel Fredericianum dell’opera di Hanne Darboven e di On Kawara è l’attestazione della centralità del dato puro, della lista di elementi. Questo nucleo concettuale centrale si proietta nelle altre sale, dove gli archivi personali (quello di Sanja Ivecovic, la bottega di prodotti di Chohreh Feyzdjou), gli studi d’artista pieni di oggetti in disordine (come quello di Diether Roth), gli stessi documentari video si offrono come realtà confusa da cui il visitatore deve trarre la propria verità, la propria sezione di mondo.
Una tale coerenza nel dipanarsi dell’idea curatoriale da uno spazio espositivo all’altro è fonte di un godimento intellettuale raro.
Peccato però che le opere più toccanti siano quelle che meno hanno a che fare, nei contenuti e nella forma, con i temi dominanti: la pura poesia di ombre e di fumo del video di William Kentridge; il viaggio nell’universo sensitivo di Eija-Liisa Athila; la nitidezza del video-trittico di Isaac Julien.
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valeria burgio
[exibart]
documenta era semplicemente noiosa
Sono d’accordo con Sergi, Kassel una città bulgara che ha ospitato una manifestazione per addetti ai lavori annoiati, con un marketing eccessivo..magliette..vu cumprà…. con delle baraccopoli nella piazza principale da paese del terzo mondo…lasciamo perdere…meno male era solo una tappa del mio viaggio estivo……..
Si vede che non siete stati a Manifesta.
E poi sinceramente non capisco l’attacco a quello che gravitava intorno alla manifestazione, tanto da definirla “città bulgara”. Perché Kassel dovrebbe fare eccezione per la presenza di “altro” oltre alle esposizione? E perché non dovrebbe esserci “altro”? Perché il quotidiano dovrebbe essere stravolto da Documenta? Spiegatemelo.