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DOCUMENTA LIBERA TUTTI

di - 24 Luglio 2007

“The big exhibition has no form”. Inizia così, con un’affermazione lapidaria, il testo in catalogo (smilzo, troppo smilzo) di Roger M. Buergel. Il direttore di Documenta 12, affiancato dalla storica dell’arte, nonché consorte, Ruth Noack, insiste su questo concetto: una mostra così grande è necessariamente informe. Partendo da tale presupposto, dichiara, a parole e nei fatti, di volersi svincolare da una serie di consuetudini ormai consolidate nella pratica curatoriale. Nessun tema esclusivo -che ridurrebbe l’arte a oggetto “illustrativo”-, una selezione di artisti (un centinaio, con 500 opere) che evita deliberatamente i soliti noti, un allestimento che si distacca dall’algida atmosfera da white cube. Infine, vista la sbandierata “tana libera tutti”, diventa possibile anche l’inserimento di opere di arte antica e moderna (la più remota è un disegno persiano del XIV secolo e, in generale, un terzo delle opere non sono state prodotte nell’ultimo quarto di secolo) e lo sparpagliamento di lavori di uno stesso artista in sale o sedi differenti.
A queste dichiarazioni di principio va aggiunta l’irritante pretesa, ribadita in conferenze stampa e interviste, all’educazione del pubblico. Quest’ultimo è continuamente chiamato in causa come protagonista e destinatario del messaggio (la mostra va intesa come medium, scrivono Buergel e Noack), ma di fatto viene disorientato e persino sottilmente sbeffeggiato nel testo in catalogo, dove si afferma che “le persone non sono in grado di confrontarsi con una radicale assenza di forma”. Come a dire: se la mostra vi sembra un tantino inconsistente è una conseguenza delle vostre limitazioni e non del fatto che sia priva di qualsiasi formalizzazione del discorso.
La debolezza di Documenta sta tutta in queste contraddizioni. Vor rebbe essere una mostra che insegna, ma abdica a ogni tentativo di costruzione di un percorso (e quando lo fa, spesso le connessioni instaurate sono scontate o poco rilevanti, vedi le tele di Kerry James Marshall esposte in una delle cinque sedi, il museo di arte antica dello Schloss Wilhelmshöhe, accanto a quelle seicentesche di Karel Van Mander III, entrambe con protagonisti personaggi di colore…); vorrebbe proporre un modello di allestimento, ma esagera affogando le opere in nauseanti sale rosa salmone o verde petrolio. Per non parlare del disastroso padiglione temporaneo, l’Aue Pavilion, costruito da Lacaton & Vassal -già autori della risistemazione del Palais de Tokio- che somiglia piuttosto, nell’aspetto e nella temperatura, a una serra (meno clemente Adrian Searle sul Guardian, che lo paragona ad una fiera bulgara). In un ambiente del genere nessuna delle centinaia di opere riesce a trovare respiro, fatta forse eccezione per la sonora Black Chords Plays Lyrics di Saâdane Afif.
Last but not least, la selezione degli artisti, che pur partendo dal lodevole tentativo di evitare una parata del già visto, in assenza di qualunque criterio guida (tema, età, curriculum, nazionalità, medium, originalità, capacità di interpretazione del contemporaneo?) finisce per scivolare nell’arbitrio più totale, accostando autori di peso e indubbia forza a personalità marginali. Come distribuzione geografica, va segnalata una preponderanza di artisti tedeschi e americani, accanto a una vasta schiera di sudamericani, orientali e africani, mentre la conta degli italiani è pari a zero. I famosi leit-motifs (modernity, bare life e education) scelti per articolare il dibattito antecedente all’apertura della mostra, a cui corrispondono i tre numeri del Magazine che dovrebbero supplire, teoricamente, all’inconsistenza del catalogo, sono stati apparentemente abbandonati durante il percorso.
Ma veniamo alla mostra. Nella sede centrale, lo storico Fridericianum, sta la parte più riuscita. Quasi all’entrata, il piccolo Angelus Novus di Paul Klee se ne sta silenzioso e vigile come un’edicola sacra. Al piano terra si fa notare per poesia e forza comunicativa I Hate, raffinata installazione ambientale sul tema del linguaggio di Imogen Stidworthy. Salite le scale, il percorso continua con un acuto: l’accoppiata Trisha Brown, figura storica della danza sperimentale, che presenta l’installazione/performance Floor of the Forest, e Iole de Freitas, la cui grande struttura ondulata di ferro e plexiglas non si limita a occupare un’intera stanza ma sconfina fuori, emergendo leggera e specchiante dalla facciata esterna del palazzo. Tra le grandi opere spiccano anche piccole perle, come Blood of a Poet, uno dei primissime lavori di Eleanor Antin.
Ma è in queste stesse sale che iniziano i tormentoni, pochi e ben riconoscibili, che continueranno a rispuntare nelle altre sedi, come un ritornello (erano forse questi i leit-motifs?) all’interno di una sinfonia espositiva che appare altrimenti come un “basso continuo”. Succede con le tele horror-kitsch del cileno-australiano Juan Davila, che in una Documenta con poca pittura finisce, insieme al già citato Marshall, per diventare inspiegabilmente protagonista; succede con le patinate sculture minimal di John Mc Cracken, per non parlare delle sedie in legno disseminate ovunque dal cinese Ai Wei Wei. Di lui si è parlato molto, non solo per la posizione di spicco all’interno della mostra, ma anche per la costosa “performance” che ha scelto di portare a Kassel: 1001 cinesi (cui corrispondono le 1001 sedie della dinastia Qing) che, in cinque tranche, visiteranno la cittadina tedesca. Come se non bastasse, la sua monumentale scultura fatta di antiche porte di legno è stata abbattuta al suolo da un violento temporale pochi giorni dopo l’opening, trasformando un solenne tempio in una affascinante rovina elicoidale (lo stesso artista ha, a quanto pare, deciso di non restaurarla).

Documenta Halle, moderna costruzione di fianco al Fridericianum, ospita due grandi installazioni di sicuro impatto: Relax it’s only a ghost, curioso ambiente pop di Cosima Von Bonin, e Phantom Truck/The Radio di Iñigo Manglano-Ovalle, che gioca abilmente con la percezione dello spettatore, catapultato prima in una stanza la cui luce è resa rosso fuoco da grandi vetrate colorate e poi in una seconda completamente buia, dove si nasconde un “camion fantasma”. La Neue Galerie risente, come si diceva, di un allestimento invadente e a tratti kitsch, con muri colorati, aule totalmente buie e illuminazioni da stanza degli orrori. Tuttavia alcune delle opere presenti, come la bellissima serie di disegni di Nedko Solakov e il video di James Coleman, superbamente allestito in un salone “sottovetro”, valgono da sole l’intera visita. In quest’ultima, un meditabondo Harvey Keitel incalza lo spettatore con l’unica domanda possibile. Quella a cui l’arte da sempre si sforza di rispondere: “Why are we here”?

valentina tanni
mostra visitata il 24 e 25 giugno 2007

*foto in alto: James Coleman, Retake with Evidence, 2007 – Performed by Harvey Keitel. Projected Film. Courtesy: James Coleman; Marian Goodman Gallery; Simon Lee Gallery; Galerie Micheline Szwajcer. © James Coleman


documenta 12, Kassel (Germania), sedi varie
16/06-29/09 2007 – office@documenta.dewww.documenta12.de


[exibart]

Visualizza commenti

  • Per Tommasetto: dalle tue osservazioni mi pare di capire che di tutto l'articolo hai letto soltanto l'occhiello iniziale. Mi sembra di aver ampiamente spiegato cosa -secondo me- non funziona di questa mostra. Poi ne possiamo assolutamente dibattere.
    Per Margherita: è chiaro che in un evento in cui ci sono più di 500 opere c'è per forza anche qualcosa di buono, ma questo non significa che l'insieme regga...
    Sulla questione degli artisti poco noti: ho scritto e ribadisco che in linea di principio è una cosa assolutamente apprezzabile. Ma come essere noti non è necessariamente garanzia di bravura, anche non esserlo non lo è...

  • Anche a me sembra di capire dall'articolo che non tutto è da buttare, quindi non si può parlare di stroncatura. Sul fatto di aver fatto partecipare anche sconosciuti mi sembra una bella idea. Si criticano spesso gli eventi perché ci sono troppe star chiamate solo per fare notizia e quando questo non avviene ci si lamenta?

  • "Una lista di artisti poco noti" mi sembra il commento critico di una lettrice di gossip insoddisfatta più che di un critco..ma vordì???!!! E chi sono questi poco noti? "Mette sul tavolo una serie di questioni imortanti" talmente importanti da soprassedere..."le opere più interessanti fanno fatica a emergere" e l'occhio critico del critco ormai serve solo più a far marchette?!!! Manca un filo conduttore? di mostre con pretestuosi temi incollati alla carlona e secondo l'ondata modaiola ne abbiamo le scatole piene. Più che un critico questa mi sembra una strafatta di consuetudini paludate. Chissà se lo pubblicate questo commento?

  • Ho visitato Documenta alcuni giorni fa.L'ho trovata splendida.I tre leit motivs, cara Valentina, non sono stati istituiti per dare un filo logico alle opere o alla loro esposizione, ma sono tre argomenti voluti per poter discutere, anche con l'ausilio dell'arte e degli artisti, su tematiche ritenute importanti oggi.E' un lavoro portato avanti in molti paesi da tre anni a questa parte, senza l'obbiettivo di farlo emergere in tutte le opere esposte ( ma il catalogo e soprattutto i 3 magazine li hai letti, almeno?).
    Bellissmo il fatto di avere artisti poco noti, nessuno idolatrato e con un padiglione a lui dedicato (e qui emerge tutta la differenza con quella vetero borghese di Biennale veneziana)poichè giustamente nessun artista contemporaneo è stato ritenuto talmente alto da essere valorizzato singolarmente. Intelligente e apprezzabile l'aver disperso il più possibile per la città l'arte contemporanea, persino sui bus e nei parchi. I 1001 cinesi fanno parte di un percorso preciso di Ai Wei Wei, e sminuirli a visitatori è veramente superficiale (tanto per sottolineare quanto questa arte sia differente da quella lagunare, l'esubero di cinesi ha portato l'organizzazione ad improvvisare un torneo di calcetto germano-cinese. sarebbe successo alle nostre biennali, così lontane dalle persone e vicine solo ai portafogli dei galleristi?).Formidabile anche l'istituzione, oramai da anni, della riqualificazione urbana di una parte della cittadina ad opera di passati artisti presenti a Documenta (si chiama documenta urbana ed è un intero quartiere progettato da architetti e designer ospitati a Kassel nelle edzioni precedenti). E poi il clima diffuso in ogni luogo della città, l'attenzione per ogni minimo dettaglio, che non aggredisce nessuno spettatore, formato o meno che sia, il coinvolgimento degli studenti, che fanno le visite guidate e operano laboratori per i più piccoli(questa è educazione, cara Valentina) e altro, che però non ha senso descrivere, è meglio vedere. Avete tempo fino al 23 settembre per capire cos'è l'arte contemporanea oggi. Forse Valentina, è il caso che vada anche tu, invece di raccontarla dopo averla ammirata in televisione, perchè questa è l'impressione che dai.

  • Caro/a X, la questione non è l'obbligatorietà di laboratori e visite. Forse non sono stato chiaro: a Documenta (e mi risulta solo qui) sono gli stessi studenti locali che, dopo aver seguito e studiato la mostra, guidano i gruppi di altre scuole, fanno attività didattiche ecc... E la gente che legge l'arte e la racconta ad altra gente, senza piedistalli o filtri interposti. E' uni dei "cuori" di questa manifestazione e dell'organizzazione di questi ultimi 5 anni.
    Di didattica e arte mi occupo da tempo, così come di pedagogia, e sono oramai abbastanza "scafato" da intender bene un buon progetto o la solita pappa rifilata dalle biennali nostrane o da tante GAM de noartri.
    Concludo, perchè poi le lungaggini mi annoiano, che siamo tutti liberi di esprimere pareri, lo è stata Valentina (su un podio migliore dei nostri, però), lo sono stato io e potevi esserlo anche tu, ma mi pare ti sia limitata a far salire la bile per pensar male d'altri senza nemmeno comprendere (e forse leggere per intero) quel che ci siamo raccontanti.
    E mi scusi Valentina se ho usato toni da salotto tv. Senza offesa o rancore.
    M.

  • Ma è incredibile che una persona non possa esercitare il proprio giudizio senza essere accusata di lesa maestà! Laboratori e visite guidate?! Ma ci mancherebbe che una manifestazione come Documenta, con la sua storia, le sue motivazioni e la periodicità quinquennale non le abbia!!!

  • Sono contento di aver letto pareri discordanti...non vedo l'ora di andare a Kassel e di capire o non capire...

  • non ci si può credere. questo articolo di Arslife che segnali è scopiazzato in più punti da quello di Exibart. o non l'hai letto o sei veramente priva di cervello.

  • Marco,
    se avessi visto qualche altra edizione di Documenta (cosa che ms Tanni ha fatto, altro che vederle in televisione!) non staresti qua a decantare l'organizzazione e la qualità di questa mostra. La recensione è fin troppo equilibrata, visto che è riuscita a raccogliere le perle di un'esposizione che ha messo di malumore anche i più entusiasti esploratori dell'arte. La prepotenza di Juan Davila è uno scandalo - se questa è una rappresentazione della "nuda vita" vi prego di farmi uscire da questo incubo; l'allestimento della Neue Gallerie un confettino per signore tedesche che giocano a bridge la domenica; lo sparpagliamento di opere di scarso valore tra i bei Rembrandt dello Schloss suscita l'impulso immediato alla Restaurazione, l'eliminazione violenta di tutto cio che è contemporaneo, l'urlo reazionario che "l'arte è morta" e fa rimpiangere quegli "esperimenti" che si fanno da anni di commistione di opere non solo al Louvre ma persino del museo di Capodimonte.
    Io vorrei riportare la memoria a cinque anni fa, dove gli anni di attesa erano serviti davvero a creare dei contenuti sostanziosi, e ogni scelta era pensata, forte, e ci si è scavata addosso per condizionare tutte le nostre esperienze successive.
    La struttura organizzativa a Kassel è eccellente, e questo nessuno lo mette in dubbio. L'educazione ha un gran peso ed è ben condotta. Ma come ben sai, per restare nella storia, un buon ufficio che funziona è importante, ma contano anche le idee, che vanno avanti anche trascinandosi in mezzo al caos e alla disorganizzazione. Sui temi poi chiedersi se "La modernità è la nostra antichità" era una domanda che era già vecchia nelle aule accademiche degli anni Ottanta. E Walter Benjamin, a cui si vorrebbe rimandare con auesta domanda non è solo l'angelo della storia di Klee, cosa che in quel contesto suona come un inno alla restaurazione del tipo: vi prego, guardiamo le macerie dell'arte contemporanea e, procedendo come gamberi, torniamo a Rembrandt. Scusate, io sono ottimista, al contemporaneo ci credo e vorrei vedere arte, non piagnistei nostalgici.

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