Il primo giorno dell’inaugurazione ufficiale di Documenta 11 a Kassel, Germania l’8 giugno 2002, è uscito un articolo sul ‘Venerdì’ (di Repubblica). A centro pagina, circondata da colonne di cronaca e notizie flash c’è una fotografia in bianco e nero di un ragazzo dell’Asia del Sud, una delle vittime, secondo la didascalia. A destra ci sono immagini dei parenti delle vittime, in alto, immagini del ‘pescatore’ e del ‘capitano’ insieme al relitto della nave fantasma nel blu profondo del mare. Nonostante le immagini e l’articolo sembrino un reportage di una tragedia marittima recente, esse annunciano invece l’inaugurazione di uno degli eventi d’arte contemporanea più importante al mondo.
L’articolo descrive il lavoro ID: A Journey through a Solid Sea di Multiplicity, un gruppo di architetti, fotografi, artisti, urban planners, sociologi, e filmmakers di Milano. Solid Sea esplora il nuovo paesaggio del mare Mediterraneo indagando sulla tragica storia della ‘nave fantasma’, un peschereccio con a bordo 283 rifugiati clandestini pakistani, indiani, e cingalesi, affondato insieme al suo equipaggio durante il trasbordo per colare poi a picco vicino alle coste della Sicilia il 26 dicembre 1996. Per cinque anni le autorità negarono l’incidente mentre i pescatori continuavano a trovare corpi e relitti umani impigliati nelle reti, finche il ritrovamento della carta d’identità di un ragazzo cingalese, insieme alla ricerca di un giornalista italiano hanno portato le autorità ad aprire il caso. Multiplicity racconta questa vicenda attraverso una serie di mappe e interviste registrate fatte a diverse persone coinvolte nell’incidente per analizzare i diversi punti di vista, presentati in un ‘stonehenge’ di televisori che circondano lo spettatore, seduto al centro a leggere i sottotitoli, dato che risulta quasi impossibile discernere le singole voci nel cacofonico ronzio di storie multilingue.
Solid Sea non è l’unica installazione che si basa sull’uso del testo. L’informazione scritta è infatti quasi preponderante rispetto immagini nei cinque luoghi espositivi di Documenta.
Il fotografo cileno Alfredo Jaar esplora questo cambiamento forse nel modo più diretto in usando, in una delle installazioni, quel tipo d’informazione scomoda che la maggior parte della gente preferirebbe ignorare. Lament of Images, un lavoro che consiste in tre testi brevi, un corridoio e uno schermo bianco accecante, è uno dei lavori più vividi e impressionanti di Documenta. Nonostante Jaar non usi neanche un’immagine allude a mostrarcene tante, forse tutte.
Il primo dei tre testi — un’installazione che usa lettere trasparenti poste su un muro grigio retroilluminato — descrive Nelson Mandela, prigioniero in Sud Africa e costretto a ricoprire di calce una strada. Durante il lavoro la sua pelle contrasta con la polvere bianca che lo ricopre quasi interamente e che infine acceca i suoi occhi nella riflessione del sole.
In una transizione quasi perfetta, il secondo testo spiega l’attuale situazione finanziaria di Bill Gates che possiede quasi 65 milioni di immagini, tra cui fotografie ‘storiche’ come quella del momento dell’omicidio di Kennedy o il primo passo sulla luna di Armstrong. Gates le vorrebbe digitalizzare e mettere in un database computerizzato, un processo che durerà più di 400 anni. Nel frattempo, per proteggerle vorrebbe seppellire queste immagini nelle miniere di calcare.
Il testo finale parla del servizio dei recenti bombardamento a Kabul e di chi detiene i dritti sulle immagini dell’evento. Alla fine, dopo un accordo con il dipartimento della difesa degli Stati Uniti, i media occidentali non potevano usare che immagini d’archivio… Pensando di aver visto tutto (o aver letto tutto), si entra in un corridoio corto e buio per uscirne accecati da uno schermo irraggiante una luce bianca abbagliante e fortissima, onde luminose così brillanti che paiono suono. Non è nient’altro che bianco: la presenza di tutti i colori, un insieme di tutte le immagini.
Invece di simulare oppure rappresentare la realtà, questi artisti, come tanti presenti a Kassel, usano come materia prima la realtà stessa, la sua presenza o la sua assenza, creando dei lavori ‘neo-realisti’, basati sulla ricerca e l’informazione giornalistica. In questo senso Documenta XI ridefinisce i confini di quella che viene considerata ’arte’.
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