Dopo una intensissima stagione a Venezia, come al solito superimpegnato con la Nuova Icona in ben sette progetti all’interno della Biennale (tra cui le irlandesi Siobhan Hapaska e Grace Weir alla Scuola di San Pasquale, Il Giardino Profumato al padiglione della Repubblica di Turchia e soprattutto Mike Nelson alla Ex Birreria Dreher alla Giudecca), Vittorio Urbani è finalmente approdato a Londra, invitato dal direttore dell’Istituto Italiano di Cultura Mario Fortunato a curare una mostra per gli spazi eleganti dell’istituto. La scelta di Urbani è andata su un interessante confronto tra un artista italiano, Maurizio Pellegrin, ed uno inglese, Charles Mason, seguendo anche una modalita’ ormai cara all’istituto culturale stesso, quella del dialogo tra esponenti dei diversi settori artistici delle due culture. Con l’occasione i due artisti, seguendo la loro prassi ricca di inconsuete risonanze, sono andati alla ricerca dei relitti di passate e fallite utopie alla ricerca di nuovi modi di sopravvivere.
Curiosiamo sui motivi di questa mostra e sull’attivita’ di uno dei più interessanti curatori indipendenti italiani.
Da che cosa nasce il progetto/mostra Starting Over?
Dal desiderio di intervenire sulla scena di Londra, così evoluta e vitale ma anche un pò troppo self-interested – almeno molto più di quello che lì non si creda, secondo me – ed insieme di rompere un certo provincialismo ossessivo della cultura italiana all’estero: la mania degli artisti italiani per il solo-show, quello al quale vengono tua zia con la camelia finta sul bavero e la tua fidanzata ma poi alla fine tutti se ne tornano a casa e non “succede” nulla. Noi invece abbiamo cercato di stabilire un dialogo, di aprire una finestra di interesse reciproco fra questi due ambiti culturali.
Perche’ questo titolo?
“starting over” è una mostra sul ricominciare: da un passato ricco o vissuto con amore ad un presente incerto e magari economicamente meno florido. Dialogare con le difficoltà per arrivare a trovare nuove soluzioni; chiedersi cosa salvare e cosa buttare, dei frammenti del vecchio mondo; ma trovarsi però alla fine in piedi sulle gambe proprie, e non su stampelle. Non del tutto fuori tema nel tempo un pò austero del dopo-11-settembre, credo. E’ una mostra anti-spreco morale e materiale, ed é soprattutto una mostra sulla speranza.
Lei e’ uno dei pochi curatori/galleristi in Italia a gestire degli spazi non-profit. Quale ritiene possa essere l’obiettivo e l’importanza degli spazi appunto non commerciali, soprattutto nel contesto italiano?
Rilevante. La famosa catena di promozione della cultura visiva operata dalle gallerie private, dagli spazi espositivi di “primo livello” cittadini, e dai musei, tutti enti che circolano intorno allo studio dell’artista semplicemente non esistono in Italia. Tutto è condotto, anche nella sua grave fragilità, dal non-profit, se riusciamo a non vedere che Flash Art ed alcuni galleristi soprattutto milanesi comunque decidono chi andrà avanti e chi no. Ci piaccia o no è così. L’unica soluzione è andare avanti per i fatti nostri, con la gente che davvero ci piace. E’ davvero divertente e secondo me dopo un pò anche funzionerà.
La situazione in Italia è tale che talvolta ti senti trasparente. Sono stato o ho cercato di essere un gallerista “normale”, o almeno come sembrava di doverlo essere 10 anni fa in Italia. Ma mi trovo molto più a mio agio nei panni attuali, e credo ci rimarrò. Non mi piace nemmeno più essere chiamato gallerista, mi fa pensare ai tunnel dei treni e mi fa un pò
di paura: io sono un impresario nel senso di quelli di teatro dell’Ottocento. Insomma vorrei essere Diaghilev che va a mangiare ostriche con Nijinskj a Parigi (artisti avvertiti!), mentre Gagosian che va da Cipriani con Jeff Koons mi fa venire la pelle d’oca.
Esistono dei motivi particolari che la spingono ad investigare (e presentare in Italia) proposte europee ed in genere internazionali?
Qualcuno dovrebbe pur farlo. Tentiamo di dare fiducia ed opportunità a giovani con idee. Gli artisti crescono sulle sfide che gli dai. Se Michelangelo non avesse avuto il papa che gli dava la Sistina da imbrattare, cosa gli sarebbe successo? Inutile presentare artisti decotti,
magari anche interessanti, ma poi scelti solo perchè famosi: è il trucco banale di curatori senza idee e senza coraggio per “entrare nel giro”. Ma quale giro, poveretti?
Progetti per il prossimo futuro?
Andare ad Istanbul in dicembre per la presentazione del “Giardino Profumato”, il Padiglione della Turchia alla Biennale di quest’anno, un progetto co-curato da Nuova Icona. Non ho paura di rischiare di passare da idiota nel dire che trovo più fresco e vero lo scenario di paesi come la Turchia che non quello dei grandi centri come New York – al quale ogni artista italiano sembra ciecamente orientarsi – città in realtà sclerotizzata su un sistema dell’arte che funziona e si autopromuove davvero molto bene, ma assolutamente appiattito sul commerciale, non certo focalizzato sul monitoraggio di una reale nuova creatività. Le mostre a N.Y. sono quasi sempre molto buone, molto di rado sono davvero interessanti.
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