Warhol ancora e sempre. D’altronde lo stesso artista commentava che “repetition adds up to reputation” (la ripetizione si somma alla reputazione).
Simbolo del pop, del consumismo rampante anni ’50 (ma anche oltre), dello star system americano e dell’indifferente anonimita’ globale, icona di se stesso e di un carisma curioso degli eccessi, equivocato spesso con esibizionismo, ritorna Andy Warhol sulle pareti dei nostri musei, sui nostri schermi (tre serate dedicate all’artista scomparso nel 1988 sono state presentate su Channel 4) e nelle nostre coscienze.
Si fa fatica a non considerare questa come una mostra “blockbuster”: di fatto si tratta della solita trappola pubblicitaria e massmediale nella quale Warhol stesso si è insinuato, conducendo, nell’epoca della riproducibilita’ tecnica, la rappresentazione del vero quotidiano alla sua estenuazione, fino a reclamare lo statuto di “macchina” per l’artista e una maggiore attenzione alla superficie anziché allo spessore delle cose.
Nelle intenzioni del curatore tedesco di questa mostra, che è gia stata presentata alla Nationalgalerie di Berlino, Heiner Bastian, Warhol è il rappresentante di quel modernismo classico che si vedrebbe esteso fino alla fine del secolo. Così viene ribadito che l’artista americano ha progressivamente rielaborato l’operazione di trasposizione catartica dei simboli della cultura di massa (da Liz Taylor, Jacqueline Kennedy e Marylin Monroe alla Campbell Soup e le saponette Brillo, tutti qui presenti) nel regno trascendente e supremo dell’arte che tutto redime: compreso l’uso della sedia elettrica negli Stati Uniti, la bomba atomica e l’indifferenza del passante di fronte all’incidente mortale agghiacciante nel quale il soggetto in primo piano rimane letteralmente agganciato ad un palo, come in White Disaster 1. Né si puo’ negare la condizione, assunta presto da Warhol, di demiurgo e genio indistinto, il cui mito sembra non spegnersi, come dimostra la frenetica affluenza del pubblico a questa retrospettiva, quasi si trattasse di un grande magazzino anziché di un museo (leggendo ancora nelle citazioni da Warhol presenti sulle pareti dei corridoi della Tate).
Di fatto, la selezione e sintesi presentata qui dimostrano il ruolo complesso di Andy Warhol in bilico tra modernità e contemporaneo. Per un artista che, così come il secolo in cui ha vissuto, ha fatto della riproduzione la sua ossessione, al punto da chiamare “wife” (moglie) la sua telecamera e da intitolare una delle sue famosissime e miliardarie serigrafie a inchiostro Thirty are better than one (trenta sono meglio di una, e l’immagine riprodotta è quella “storica” della Monna Lisa), il processo rappresentativo del quotidiano viene ripercorso, ma nel suo ripetersi minuzioso, così da essere reidentificato con il prodotto finito presente nella realtà. Di fatto, nell’accumularsi dello stesso prodotto e della sua stessa immagine, si annulla la facoltà di distinguere un prodotto dall’altro ed un oggetto dalla sua immagine riprodotta, conducendoci in un contesto molto simile al nulla, un contesto utopico di non-luogo appunto, in cui non solo la rappresentazione si identifica con il reale, ma anche l’io, come in certi rituali mistici, si identifica con il tutto. E ritrovo un commento dello stesso artista: “I don’t want it to be essentially the same – I want it to be exactly the same. Because the more you look at the same thing, the more the meaning goes away, and the better and emptier you feel.” (Non voglio che sia essenzialmente lo stesso – voglio che sia esattamente lo stesso. Perché più guardi alla stessa cosa, più il significato scompare, e meglio e più vuoto ti senti.)
Tempo e gesturalità vengono ugualmente riscoperte e ripercorse nel loro impercettibile svolgersi, mentre la serialità del processo le conduce ad appiattirsi di nuovo sulla superficie liscia dell’immagine. Così, nell’ Empire State Building, viene ripresa filmicamente per 24 ore una delle icone dell’architettura newyorkese, mossa solo dal modificarsi della luce dal giorno alla notte. Nelle scolature di colore del primo Batman, si notano le tracce di una gestualità più tipica dell’espressionismo astratto – grande rivale del pop – che verrà poi ripresa nei primi anni ’70, con il ritorno alla pittura ed il segno più denso ed impastato del pennello nei ritratti di Mao Zedong, Mike Jagger, Dennis Hopper e in contrappunto nei teschi. Meno conosciute sono le più tarde astrazioni, composte spesso in veri e propri ambienti, come le ossidazioni (Oxidations), in cui la pittura di rame e’ stata fatta reagire con l’urina, e i dipinti ombra (Shadows Paintings), realizzati a partire da fotografie dell’ombra prodotta da certi oggetti.
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Il sito della Tate
Irene Amore
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