Da sempre più famosa per le spiagge assolate, i corpi
abbronzati e i divi di Hollywood che per i musei e le gallerie, Los Angeles ha
dovuto combattere una dura battaglia per esser presa seriamente come centro
creativo d’arte contemporanea. D’altra parte, proprio la rilassata libertà
dello stile di vita della metropoli californiana (insieme alle palme e alle
sgargianti tavole da surf) è stata una dei motivi per cui numerosi artisti
decisero, negli anni ’60, di fare della California la loro casa. Incluso
Edward
Ruscha (Omaha, Nebraska,
1937; vive a Los Angeles).
Leggera e flessuosa, l’arte di Ruscha richiede un percorso
espositivo altrettanto agile perché la sua ironia possa emergere pienamente. E
la retrospettiva alla Hayward Gallery è all’altezza della situazione. Con 78
tele – molte delle quali in Gran Bretagna per la prima volta –
Ed Ruscha:
Fifty Years of Painting esplora i cinquant’anni di carriera d’uno dei più influenti artisti
viventi: dagli esordi Pop Art dei primi anni ’60 agli iconici paesaggi
americani dei suoi lavori maturi.
Nato in Nebraska nel 1937, Ruscha si trasferisce a Los
Angeles nel 1956, affascinato da una città che pare “
una sagoma ritagliata dal cartone”. Vuol diventare un grafico
pubblicitario e, mentre studia al Chouinard Art Institute, lavora part-time per
una casa editrice e per un’agenzia pubblicitaria, dove impara l’arte della
tipografia, l’impaginazione, i fotomontaggi: strumenti che diventeranno parte
integrante della sua sperimentazione artistica.
Già dagli anni ‘60 produce dipinti, collage e stampe che
si rifanno a
Jasper Johns e
Robert Rauschenberg. Ma è
Duchamp la sua grande fonte d’ispirazione. E come Duchamp,
anche Ruscha sfida le convenzioni artistiche, giocando con materiali e tecniche
fuori dell’ordinario, che vanno dalla polvere da sparo al tuorlo d’uovo.
I suoi studi al Chouinard lo avvicinano inevitabilmente
all’Espressionismo astratto, ma Ruscha si accorge bel presto che l’approccio
gestuale di
Pollock non fa per lui. E sceglie le parole. Parole singole, ispirate al
cinema, alle insegne pubblicitarie, ai sogni. La parola isolata, sonora,
perforante diventa, nelle mani di Ruscha, una sagoma muta che galleggia su un
mare compatto di colore.
Annie (1962),
OFF (1962-63),
Noise (1963).
Isolate o in frasi più lunghe, sullo fondo di generici
tramonti in technicolor, di picchi innevati, o disegnate per essere viste dallo
specchietto retrovisore di un’automobile in movimento, ma sempre
desemantizzate, le parole non sono altro che “
una massa orizzontale di forme
astratte” di cui
Ruscha si serve per creare nuovi paesaggi visivi.
Ma presto la rigidità tipografica delle parole dei suoi
dipinti lo porta a cercare alternative. Sottile e immensamente poetico, in
bilico tra realtà e illusione, il paesaggio notturno di
Standard Station (1966) mostra il fascino
esercitato dal cinema sull’artista americano. E come il cliché del tramonto in
The
Back of Hollywood (1977), anche la vetta isolata di
The Mountain (1998) è un’immagine archetipica,
un sublime artificiale che rimanda ancora una volta ai cartelloni
cinematografici (la Paramount?) e in cui il paesaggio costituisce un semplice
supporto all’enigma verbale in atto.
Enigma che sembra trasformarsi in una metafora della morte
in
The End (1991). Qui le grandi dimensioni della tela, i caratteri gotici dell’immagine
che raffigura l’inquadratura finale di una pellicola segnata dal tempo, sono al
momento stesso una celebrazione della bellezza della celluloide e un lamento alla
sua progressiva scomparsa.
“Io osservo semplicemente la crudeltà del progresso e
ne faccio immagini”,
dice Ruscha. Ma
se tutto intorno a lui muta, immutata resta la sua capacità di sfidare i limiti
del quotidiano e di aprirsi al trascendentale.