Perché l’azione deve avere assiomaticamente una conclusione? Perché il risultato mette in ombra il processo? Queste sembrano essere le domande sulle quali
Francis Alÿs (Antwerp, 1959; vive a Città del Messico) concentra la sua attenzione.
L’Hammer Museum dedica una grande mostra all’artista belga, residente in Messico fin dagli anni ’80. Alÿs lavora con un’ampia gamma di media, tra i quali pittura, video installazioni, disegno, performance, film e fotografia. Sin dal suo esordio, l’elemento peculiare che muove la sua arte è una netta inclinazione a evitare il concetto di “conclusione”, indagando piuttosto sulla ripetizione interminabile. L’osservatore è posto davanti a una serie di storie che puntualmente presentano un vago inizio e sicuramente mai una fine. In tutte le opere è posta l’attenzione sul perpetuare la stessa azione, aprendo così molteplici ipotesi di percorso. Alÿs, infatti, adotta il concetto di “prova”, proprio riferendosi a quella teatrale, scenica, in cui ogni ripetizione tende a un’interazione nuova con gli elementi circostanti, dando la possibilità al progetto di migliorare, evolvere o addirittura essere annullato. L’oggetto in questione viene così considerato sempre modificabile, anche attraverso strumenti diversi.
L’opera esemplare in questi termini è il video
Rehearsal 1 (1999) in cui una Volkswagen cerca di raggiungere la cima di una piccola collina di Tijuana. Sullo sfondo, la musica di una banda
danzon si sta esercitando in una nuova canzone e, ogni volta che s’interrompe, anche la macchina rinuncia al tentativo di raggiungere la cima, ritornando a marcia indietro al punto di partenza. Un concetto simile è messo in scena in
Rehearsal 2 (2001), dove una donna sta provando la sua performance di strip-tease.
La mostra include anche alcuni dei lavori più noti dell’artista come
Work, Song for Lupita (1998), che consiste in un’animazione in cui una donna travasa ripetutamente acqua da un bicchiere all’altro. Così come
R.e.h.e.a.r.s.a.l. (2000), che mostra un animatore che lavora sulla parola stessa “rehearsal”, aggiungendo lettera dopo lettera in una serie di fogli che si susseguono tra le sue mani. Alcuni dei lavori sono supportati da una larga produzione di disegni che, come palinsesti, si sovrappongono gli uni agli altri e sottolineano il concetto di revisione senza fine. Il possibile, eventuale scopo di queste “prove” viene comunque suggerito, introducendo anche l’ipotesi del nonsenso dell’azione, ossia la non finalità di un processo.
Attraverso questo articolato concetto, Alÿs abbraccia metaforicamente la difficoltà del Messico di aprirsi alla modernità della cultura occidentale. Questa inclinazione politico-culturale a non arrivare mai a una conclusione definita è sottolineata in
Paradox of Praxis 1 (1997) e in
When Faith Moves Mountains (2002). Il primo video mostra l’artista che spinge un cubo di ghiaccio per le strade di Città del Messico, fino a ridurlo a un piccolo pezzo da far procedere a calci. Il secondo documenta una performance dove cinquecento volontari, muniti di pale, spostano una grande duna di sabbia nella periferia di Lima. Dopo un’intera giornata il risultato è quello di aver mosso solo pochi centimetri di sabbia. Il riferimento è chiaro, esplicito. Grande sforzo per un risultato minimo.
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...che infatti non fa capolavori!