Delineator (1974-75), un tappeto di acciaio nero sormontato da una struttura identica ma perpendicolare, introduce senza troppi preamboli all’esauriente retrospettiva che il MoMA dedica a Richard Serra (San Francisco, 1939). Questo specchio strabico, schizzato al suolo e al cielo da un piedistallo abolito, non può che essere visivamente frustrante, non appena il senso di possesso delle orme sulla lastra sbiadisce nell’irraggiungibilità del soffitto. In balia di corpi autonomi che pretendono attenzione estetica ed emozionale, senza l’aiuto di noiosi cartelli esplicativi, lo spettatore riscopre che la percezione della forma non é univoca, ma essenzialmente determinata dalla soggettività della visione. Dentro Circuit II (1972-86), invalicabili diagonali di una stanza cubica, la scultura si dilata, ci confina in spazi angusti, o si restringe fino ad assottigliarsi, a seconda del punto di vista scelto.
Mettendo in crisi l’equilibrio razionale della ricerca minimalista, la serie Prop Pieces (1969) rivela la potenziale contraddittorietà insita nel rapporto fra materia e forma. Una tonnellata di piombo assume la fragilità di un castello di carte (One Ton Prop – House of Cards), una precarietà rarefatta mantiene tubi massicci come sospesi in aria (5:30), la forza di gravità viene continuamente sfidata da una materia svuotata del suo peso specifico (Prop, 1968). Insomma, per dirla con le vibranti parole di Italo Calvino, “l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza” (Lezioni americane, 1985).
Eppure, la contemplazione della forma è solo il primo passo di un approccio alla produzione recente di Richard Serra, esposta al secondo piano e nello Sculpture Garden del MoMA. Grandi installazioni (Band, 2006; Torqued Torus Inversion, 2006; Sequence, 2006; Intersection II, 1992-93; Torqued Ellipse IV, 1998), negli ultimi anni spuntate come funghi nelle maggiori capitali e musei del mondo (New York, The Federal Plaza, 1981; Napoli, Piazza del Plebiscito, 2003-04; Bilbao Guggenheim, 2005) rapiscono gli spettatori in inestricabili labirinti o in accoglienti piazze ellittiche. L’astrazione geometrica della forma, visivamente definibile dall’esterno, nasconde la possibilità dell’esperienza fisica dell’opera, aperta all’imprevedibilità delle reazioni del pubblico.
Luoghi d’incontro o rifugi silenziosi, le installazioni di Serra vivono della presenza dell’uomo, chiamato ad assegnare nuovi significati alle forme attraverso la propria libertà creativa: l’eco della voce, il tatto, camminare o correre, smarrirsi o indagare la materia, scoprire punti di vista e connessioni inusuali fra l’opera e lo spazio circostante.
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