Riscoprire o scoprire
Julius Bissier (Friburgo, 1893 – Ascona, 1965) risulta un’evidente necessità, dopo la visita alla sua antologica al Museo Cantonale di Lugano. Nel percorso espositivo, che abbraccia cinquant’anni di lavoro, è riunita tutta la potenza di un’opera che s’impone con gli strumenti di una sintesi estremamente incisiva e di una riflessività che rivela la statura intellettuale dell’artista tedesco.
I suoi mutamenti stilistici sono la cartina di tornasole sia degli stili che si susseguirono nell’arte del Novecento, sia di una ricerca personale che tende verso l’astrazione, intesa come ricerca del nucleo essenziale dei fenomeni rappresentati e della pittura stessa.
Il percorso si apre con una sala di estrema intensità, con lavori dal 1914 alla fine degli anni ‘20, tra cui un gruppo di autoritratti che mettono subito in chiaro l’onestà dello sguardo dell’artista, anche verso se stesso. Alcune delle prime ricerche, già efficacissime come impatto, potrebbero essere inscritte nel solco dell’esplorazione di segno e simbolo di
Paul Klee, e testimoniano già la presenza di una spiritualità franca e onesta, antidogmatica perché intellettualizzata; una spiritualità che include rimandi all’Oriente, ad esempio nella tabula rasa di
Paesaggio glaciale, del 1919. È evidente anche una ricerca di nuove applicazioni del concetto di sublime, di trascendenza estetica nel rapporto tra paesaggio e individuo, decisamente sbilanciato a favore della forza imponente del primo termine.
Dagli anni ‘20, con l’adesione alla Nuova Oggettività, la trascendenza diventa quella del fenomeno tangibile, quotidiano, quasi dando vita a un animismo degli oggetti e delle superfici. Un animismo della pittura che è riscontrabile in tutte le cose, meglio se semplici e minime; e della realtà, che infonde nella pittura la propria concretezza dimessa. Il soggetto ultimo è l’essenza di ogni fenomeno, tanto più marcatamente presente quanto più la cosa è
piccola e apparentemente insignificante.
Si è già parlato della franchezza degli autoritratti, ma s’inscrivono nello stesso solco la calma vibrante di
Imbarcadero a Zurigo (1927) e, soprattutto, i piccoli, inestimabili gioielli costituiti dalle nature morte degli anni 1938-41, dove oggetti qualunque come una castagna portano sulle spalle l’intero peso della manifestazione del fenomeno, l’essenza delle cose, appunto.
Il ladro di legna (1925) è più orientato a un espressionismo quanto mai ragionato, dove vige un panteismo delle sensazioni dall’impatto vertiginoso sull’inconscio di chi osserva il dipinto.
Le sale al secondo piano raccolgono per lo più l’importante produzione astratta di Bissier, in cui l’essenzialità diventa vera e propria astrazione: nasce il suo tipico calligrafismo orientaleggiante, che riassume e asciuga in modo del tutto personale le tendenze informali del secondo dopoguerra artistico.
L’ultimo piano del museo ospita invece le opere di
Francis Bott (Francoforte, 1904 – Lugano, 1998), altro nome da riscoprire, rappresentato da straordinarie opere astratte e surrealiste. Queste ultime, in particolare, risultano di grande valore, anche per la libertà di spirito che le allontana dalle logiche irreggimentate dei surrealisti più noti.
Un piglio personalissimo, che mette in contatto diretto i lavori e la mente dello spettatore, facendo risuonare entrambi di piacere intellettuale ma anche di sensualità e vigore politico.