Linguaggi diversi -colorati come i tessuti stampati a cera degli abiti locali- quelli di questa sesta edizione dei Rencontres Africaines de la Photographie. Voci che si rincorrono per narrare dall’interno un altro mondo, quello dei suoi protagonisti. Dietro l’obiettivo ci sono circa 110 fotografi africani e della diaspora. Nei loro scatti hanno catturato il flusso della gente comune, fatto di situazioni e momenti colti nelle variabili del quotidiano. Che mostrano un’Africa fremente di potenzialità.
Appuntamento a Bamako, dunque, consolidata capitale della fotografia africana, a dieci anni di distanza dalla prima biennale. Commissario Generale è Simon Njami, il cui nome è legato a rassegne come Africa Remix, mostra itinerante partita da Dusseldorf nel 2001 che dopo aver girato per Europa e Stati Uniti approderà nel 2007 in Giappone. E’ lui a fare gli onori di casa il giorno dell’inaugurazione, l’11 novembre, spostandosi nei luoghi della rassegna (Museo Nazionale del Mali, Biblioteca Nazionale, Museo del Distretto di Bamako, Memorial Modibo Keita, Centro Culturale Francese, Pyramide du Souvenir) per illustrare tutti i percorsi ai rappresentanti del mondo accademico del Mali: tra loro il Ministro della Cultura, Cheick Oumar Sissoko, raffinato cineasta; Samuel Sidibé direttore del Museo Nazionale del Mali; Moussa Konate direttore della Maison de la Photographie Africaine. Gli ospiti stranieri vengono quasi esclusivamente dalla Francia (partner dell’evento) e dalla Spagna (paese invitato).
Cuore di questa edizione della biennale è la mostra Un autre monde (curata dallo stesso Njami), allestita nel padiglione centrale del Museo Nazionale. Doveroso il tributo ai grandi della fotografia: prima di tutto ai maliani Youssouf Sogodogo e Malick Sidibé (il suo studio nel quartiere di Bagadaji è una tappa obbligata per i viaggiatori europei a caccia di souvenir fotografici), che con i suoi scatti degli anni ’60-’70 -vibranti di musica e di emancipazione- ha documentato mode e tendenze nella fase di passaggio dalla colonizzazione francese all’indipendenza. Con loro anche due autori recentemente scomparsi, il fotografo di Reunion Gilbert Albany (1940-2004) e John Mauluka (1932-2003) dello Zimbawe. Ranjith Kally, invece, nato in Sudafrica nel 1925, è vivo e vegeto e, con un certo orgoglio si mette in posa davanti alla sua fotografia che ritrae Sonny Pillay e una giovane e sorridente Miriam Makeba (1959), ricordo della sua trentennale collaborazione come fotoreporter della rivista Drum. Kally, di cui sono esposte una ventina di stampe in bianco e nero, è stato testimone della lotta al razzismo, particolarmente feroce nel suo paese. La memoria del passato ha senz’altro un certo spessore all’interno di questa rassegna fotografica, anche se l’obiettivo delle nuove generazioni è puntato essenzialmente sul quotidiano. Immagini catturate per la strada, in metropolitana -da Ouagadougu al Cairo- in un giorno qualsiasi. Sono le inquadrature di Onoriode Oghobase, Bukkie Opebiyi e Rana El Nemr. Alcune sono tinte di rosso e cariche di violenza, come quelle di James Iroha, de Sikasso, Mikhael Subotzky. Colpiscono forte gli scatti di Paul S. Kabre, fotografo burkinabé, dedicati alla pazzia.
Il presente è nella traccia lasciata sulla sabbia -una ciabatta, un pesce, la scarpetta da bebé- di Mark Lewis o nella rabbia di Fatima Mazmouz, che con le sue bambole bionde, intere o a pezzi, raffigurate all’interno di gabbie di metallo oppure appese al filo da bucato, si fa portavoce di un messaggio di denuncia della condizione della donna nel mondo arabo. Frammenti di storie al femminile anche quelle raccontate da Gisèle Didi, Sarah Sadki e Patricia K. Triki, particolarmente liriche, ma non meno energiche. Helga Kohl ha fotografato un villaggio abbandonato di minatori della sua terra, la Namibia, in cui la sabbia ha imposto una presenza invadente: uno scatto di questa serie è l’immagine simbolo dei Rencontres.
Tra le tematiche affrontate non manca la religiosità, esplorata da due autori: Francis Nii Obodai , fotografo del Ghana che mostra immagini inedite di un tempio di Accra dove cristiani e musulmani pregano insieme, e l’algerino Bruno Hadjih, che documenta il fuoco interiore che anima i sufi, espressione di una visione dell’Islam più libera dall’ortodossia. Poche immagini sconfinano nel sogno o nel delirio, le altre sono per lo più lucide osservazioni. Un racconto libero, in ogni modo, da qualsiasi esotismo o da stereotipi di tristezza e miseria. I fotografi africani inquadrano il reale, sforzandosi di mostrare la bellezza della verità.
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