Invece se ne esce con l’amaro in bocca, da questa Berlin North. Se ne esce con l’impressione di voler salvare il salvabile. Per amore allo spazio che l’ha ospitata, per il vivo interesse dell’arte chiamata in causa, per tutti i nomi che avrebbero potuto esserci ma non c’erano e la cui assenza ha pesato più di mille altri mediocri lavori.
L’idea è semplice ma accattivante: ventisei presenze per sbozzare la creatività che ha scelto la capitale tedesca per emergere ma che viene dal nord, dalla Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda. I lavori sono divisi in quattro aree tematiche: Trasformazione dello spazio, Ricostruzione della natura, Situazioni sociali e Narrative. La mostra inizia con un’enorme sorpresa, una buonissima premessa: Architektonische Zweifel di Knut Henrik Henriksen. Si tratta di un intervento architettonico, un prodigioso sbarramento di legno non trattato che ruba al visitatore lo scontato respiro della luminosa sala principale dell’Hamburger Bahnhof regalandogli, però, il buonissimo odore di legno, quasi di bosco, e un’iperbole all’eccesso delle tipiche case di legno così comuni nei paesi del nord. Segue un parco degno di Star Trek: un’ampia sala bianca occupata da 14 steli di acciaio che raggiungono il soffitto e che sostengono altrettanti schermi ultrapiatti dai quali, immersi nel verde intenso di chissà quali alberi, cantano in video degli usignoli. È una natura fittizia che cerca, attraverso il canto prepotente degli usignoli, di invadere la sterilità della stanza. È May 12, 2002, video-passeggiata nel berlinese Tierga
Ed è da questo momento in poi che la mostra smette di scorrere. Prosegue a singhiozzo, accidentata com’è da vuoti sbarramenti che vorrebbero essere considerate installazioni. È tutto un avanti e indietro, un sali e scendi di scale dove il visitatore si perde volontariamente ad ammirare i neon di Dan Flavin. Preferendoli a colori arroganti, suoni tuonanti, foto, video, rumori, dipinti e vestiti dietro ai quali si ha l’impressione che si celi solo il vuoto. Salvano lo spettatore dall’enorme distesa di mediocrità due splendidi lavori: Abendzeichnungen di Dag Erik Elgin e The House di Eija-Liisa Astila. Il primo lavoro è una raccolta di piccole tele timidamente bianche, gialle o azzurre con semplici tratti neri che raccontano dettagli del quotidiano: una maniglia, un pacchetto di sigarette dimenticato sul pavimento… Si spargono all’angolo di due pareti, occupandone tutta l’altezza. Il titolo, che significa Disegni serali, suggerisce lo spaccato di un privato raccontato con estrema discrezione. The House è invece una video-installazione dell’ ormai famosissima artista finlandese Eija-Liisa Ahtila.
Il video è proiettato su tre schermi che lavorano in totale armonia per seguire un racconto e, allo stesso tempo, arricchirlo di significativi elementi visivi. Una donna dalla voce e dallo sguardo molto intensi cerca di raccontare di sé e del suo vivere in una casa in un bosco. Il racconto è una complesso viaggio nella psiche di questa fragile donna; la protagonista appare allo spettatore in bilico fra un’estrema sensibilità e la schizzofrenia. L’artista nega facili chiavi di lettura; presenta delle immagini ed un racconto travagliato forzando lo spettatore ad arricchirle delle sue supposizioni che, alle volte, non sono che le sue più grandi e recondite paure.
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