Non tanto una retrospettiva in senso storico -programmaticamente, la successione cronologica è stata sostituita da affinità tematiche-,
Wack! illustra i modi in cui certi nodi sono contestualizzati e concettualizzati in rapporto all’esperienza femminile dal ’65 al 1980. Lasciando in secondo piano il passaggio da una prima fase cosiddetta essenzialista a una influenzata dal post-strutturalismo, il panorama evidenziato è quello di una continua ricerca che si serve di diversi canali espressivi: video, fotografia, pittura, performance, installazione.
Gli spazi quasi labirintici del P.S.1 si mescolano tra scale, corridoi, piccole stanze e grandi sale, inseguendo un linguaggio in movimento, inquieto; un linguaggio dell’esperimento, dello scontro, della partecipazione che volge la propria attenzione al
luogo, alla posizione in cui ci si trova, sia in senso fisico che biologico, sociale o psicologico.
Prima di tutto il luogo per eccellenza, la casa. Luogo da riempire di rabbia, come fa
Martha Rosler nel “classico” video
Semyothics of the Kitchen, in cui nomina uno a uno gli oggetti della cucina per mostrarne l’utilizzo in maniera provocatoria e aggressiva. Oppure luogo metafisico, di spazi vasti e misteriosi:
Sylvia Mangold dipinge interni deserti, silenziosi, espansi, in cui campeggiano panni da lavare o una porta aperta. Oppure, ancora, la casa diventa un luogo interiore, mentale, un luogo viscoso e avvolgente: quello della
Woman’s house filmata da
Mako Idemitsu, in cui le pareti della cucina sono ricoperte di seni che si trasformano in uova, in cui calze e tamponi usati saturano lo spazio. Fino alle foto di
Francesca Woodman, che tenta il passo finale, l’identificazione, l’assorbimento nei muri scrostati di una vecchia casa.
Presenza e assenza coesistono, desiderio di comprendere la propria esatta posizione, possedendola, e di liberarsene, guardandola da fuori. Non stupisce allora l’uso di specchi e superfici trasparenti usate per il riconoscimento-superamento-celamento del corpo, il luogo base intorno a cui si struttura l’esperienza.
Ana Mendieta preme un rettangolo di vetro sul proprio corpo a tal punto che, invece di esserne evidenziato, il corpo stesso ne risulta trasformato, deformato.
Joan Jonas si esplora con l’aiuto di uno specchio, ma nella performance
Mirror piece, documentata da foto, gli specchi, proiettati all’esterno, sono usati piuttosto per nascondersi, mettendo al proprio posto quello che si ha davanti.
Calarsi nei panni: ecco un’altra strategia di posizionamento-decentramento, che sia nei panni di immagini femminili prese dalla storia dell’arte (
Ulrike Rosenbach mescola la propria immagine a quella della
Venere di
Botticelli,
Mary Beth Edelson sovrappone alle donne del
Bagno turco di
Ingres i volti di artiste femministe) o dalla comunicazione mass-mediatica (
Suzy Lake si ritrae in pose canoniche da pellicola o pubblicità).
Cosey Fanni Tutti e
Suzanne Lacy si calano rispettivamente nel mondo della pornografia e della prostituzione: la prima partecipando attivamente alla produzione di materiale pornografico, la seconda studiando, in un’opera tra diaristico e concettuale, registrazione degli eventi e meditazione, le dinamiche di potere, paura, repulsione, invidia legate alla prostituzione.
Il tutto per ridefinire il territorio del femminile. Con forza o ironia, oltrepassando imposizioni o automatismi. Come fa l’
Odalisca in latex di
Lydia Benglis: forma sensuosa, enigmatica, divertita, casuale. Da reinventare di volta in volta.