A primo impatto l’installazione di Michael Landy (Londra, 1963) tradisce l’adesione ad alcune retoriche formali della Young British Art: la propensione a certo gigantismo dell’opera e un’ipervisività del reale con esiti di violento iperrealismo. L’ambizione è enorme: proporre, nella storica Tate, la costruzione di un edificio che rispetti fedelmente le sembianze della casa paterna nell’Essex. L’impatto è altrettanto potente. Intanto salta all’attenzione la teatralità intrinseca del prospetto che -nonostante le modeste dimensioni dell’edificio– riesce a occupare l’intero campo visivo dello spettatore. A distanza si è nervosamente soggiogati dall’effetto scenografico e bidimensionale da ‘quinta’. Poi, avvicinandosi, prevalgono la gravità e il senso d’inquietudine. L’assenza di contesto urbano isola l’edificio in una sorta di mistero contemplativo; lo spettatore -ancor prima di interrogarsi sul fascino insolito dell’opera- dovrà fare i conti col silenzio in cui viene proiettato.
L’enigma di Landy è una presenza vuota e spettrale che suscita disagio ed evoca un sottile terrore. Certo è che la allucinata adesione alla realtà, nonostante l’emotività in gioco, non presenta alcun cedimento verso la sfera sentimentale.
Chiunque intenda confrontarsi con quest’opera entrerà in contatto con la dimensione esistenziale lenta e un po’ noiosa di chi abita la casa: cornice barocca di un universo privato che vuole aprirsi alla curiosità del visitatore. Ma che resta uno spazio sigillato e inaccessibile.
Landy intende dare uno ‘spaccato’ di questa vita e, fuor di metafora, separa l’edificio in due parti per svelare i segreti dell’interno. Protagonista è il padre, un ex minatore del Northumberland rimasto infermo nel 1977, a seguito di un tragico incidente sul lavoro. Le conseguenze sono state determinanti per la vita di John Landy che ha dovuto reinventarsi una nuova esistenza scandita secondo ritmi più lenti, stretti intorno alla memoria e ai ricordi del passato. Sulle pareti della sezione sono proiettati documenti che ricostruiscono per immagini la storia dell’uomo. Da una parte la scansione di un gruppo di diapositive che tematizzano sul lavoro di miniera; si tratta di immagini recuperate da opuscoli e manuali DIY che il padre ha continuato nostalgicamente a collezionare negli anni. Dall’altra invece un lungo piano-sequenza girato nella sua stanza dove la telecamera si muove lentamente fra gli oggetti cogliendone la forte carica esistenziale. Le immagini – immerse in un’atmosfera onirica – sono accompagnate da un ritornello musicale fischiettato che ripropone, fra gli altri, la malinconica ballata irlandese Danny Boy, motivo ricorrente del padre.
L’opera di Landy è l’epopea di un uomo qualunque; il dramma joyciano di una vita che non ha nulla di eroico da celebrare ma che – allo stesso tempo – rifiuta la compassione martirizzante. Poiché nulla di quella casa è particolarmente straordinario o terribile, l’esistenza che la abita non fa altro che specchiarsi nei caratteri medi di quelle mura. L’antieroe di Landy vive il dramma domestico di ogni vita, segnata dai ritmi quotidiani del ‘giorno per giorno’ e da un destino cui non può sottrarsi.
alan santarelli
mostra visitata il 2 giugno 2004
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