La memoria collettiva è il risultato di una stratificazione di variabili che si sovrappongono, si modificano e si completano a vicenda. E sempre più il mondo dell’informazione è l’attore principale nel veicolare racconti che si sedimentano nel patrimonio della memoria di ognuno. Se uno dei compiti degli artisti è quello di svelare e rendere nuda la consuetudine, il
re-enactment ne rappresenta una delle possibili strategie operative. Come sottolineato in apertura del testo in catalogo, il termine “re-enactment” è usato per definire una ricostruzione storicamente corretta di eventi importanti, dove il pubblico non è distante rispetto all’evento, bensì ne è direttamente testimone, se non protagonista. Si pensi alle ricostruzioni di grandi battaglie del passato oppure a eventi più vicini alla cultura popolare, come le sagre in costume o i giochi di ruolo dal vivo. Ma se queste forme ci vogliono riportare nel passato o in un’altra dimensione, per i ventidue artisti in mostra
re-enactment significa ricostruire il passato in modo che abbia un valore per il presente, che possa solleticare il nostro senso critico sulla storia.
Paradigmatica diventa l’opera di
Jeremy Deller (London, 1966),
The Battle of Orgreave (2001), in cui viene recitato uno degli scontri più cruenti tra minatori e poliziotti nel biennio caldo 1984-85. Con la direzione del regista
Mike Figgis, Deller costruisce un video-documentario dove, oltre al re-enactment, protagoniste sono le impressioni a caldo e le interviste di coloro (poliziotti, minatori e cronisti) che furono testimoni e veri attori dello scontro. La ri-messa in scena attraverso la memoria di chi c’era si pone con forza contro il potere costituito che allora bollò i rivoltosi come nemici della Gran Bretagna.
Come punto di partenza, anche
The Third Memory (1999) di
Pierre Huyghe (Paris, 1962) ragiona sul filtro che i media esercitano tra l’evento e la sedimentazione nella memoria collettiva. Un fatto di cronaca risalente al 1972 e che ha qualcosa di pruriginoso -una rapina con in mezzo una storia d’amore omosessuale- non può che solleticare il voyeurismo americano, tanto che il cinema se ne appropria per
Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) con Al Pacino. Tra i report contemporanei all’evento, le dichiarazioni e interviste nei buoni salotti televisivi, lettere dal carcere e celebrazione cinematografica, ogni parvenza di bussola pare perdersi nel circo mediatico. Così, l’artista francese attua il suo re-enactment come fosse un video dietro-le-quinte come contenuto speciale di un dvd, giocando sui cortocircuiti percettivi che si sono succeduti.
Ancora è il prurito americano a essere protagonista della video-installazione
Unexpected Rules (2004) del duo svizzero
Frédéric Moser e
Philippe Schwinger (Saint-Imier, 1966 e 1961). All’interno di un set teatrale, che riprende esageratamente il design di un peep-show, una compagnia recita frammenti dell’affaire Clinton-Lewinsky. La cronaca diventa da una parte pretesto per sottolineare le contraddizioni nell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica che gli stessi veicolano, dall’altro la possibilità di creare una nuova storia o fiction, da un punto di vista esclusivo e soggettivo: un’altra verità fra le tante esistenti.
Daniela Comani (Bologna, 1965) pone se stessa come filtro alla storia del Novecento con
Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (2002). 365 giorni narrano con il linguaggio della scrittura gli eventi attraverso statement in prima persona. Dati che sono ricondotti a tempi e luoghi precisi -ma senza ordine cronologico- su un’enorme superficie dove le parole creano un pattern a grado zero, accompagnate da un audio cd che recita le stesse. È attraverso la semplicità allora che lo spettatore è portato a compiere il suo personale viaggio nella storia, a confrontare i propri ricordi e a elaborare il suo personale senso all’interno della stessa. Al contrario della maggior parte dei lavori presenti, qui il re-enactment è offerto anche a chi guarda, in una dimensione contemplativa che spesso il video rifugge.