La sede berlinese del Guggenheim mette in mostra alcuni lavori di fotografi e film maker contemporanei della propria collezione, riunendoli secondo il concetto di
Nord. Ciò che viene da chiedersi è se il tema sia stato scelto come mero pretesto per esibire la propria eccellenza e il proprio impegno nell’istituzionalizzare l’attuale o se ci sia qualcosa di più.
In questo caso ha un senso, nella sua semplicità, il concetto di
True North; risulta vivo e stimolante perché frutto di un’appassionata selezione curatoriale, di un rigore ineccepibile con il quale tutta la mostra è stata pensata e realizzata. Numerosi e di alto profilo gli appuntamenti collaterali: lecture e convegni ricchi di presenze importanti della critica d’arte e della filosofia nordeuropea, ma anche incontri con gli artisti, coinvolti nel dialogo con il pubblico, oltre che workshop e proiezioni capaci di declinare il concetto proposto da vari punti di vista. Il tutto impreziosito da un documentario musicale, stampato per l’occasione in un cofanetto tirato in centocinquanta copie, che ci restituisce la capacità di
Glenn Gould -pianista canadese, innovatore negli anni ‘60 dei programmi radiofonici- di sperimentare sovrapponendo passaggi di interviste sul tema, effetti sonori e composizioni musicali per un innovativo effetto di contrappunto.
Una mostra curata nei minimi particolari e che, per tale ragione, assume una notevole compattezza, classe e rigore. L’installazione di
Roni Horn, che occupa la sala più grande, presenta 45 fotografie scattate in Islanda e poste in serie all’altezza degli occhi del visitatore con l’obiettivo di creare un orizzonte confuso. Problematicità, confusione, distonia -quella suscitata dall’invasività dei cicli artificiali su quelli naturali- che troviamo anche nella fotografia
Glaspass (Walks #10) di
Thomas Flechtner, dove l’algido e glaciale paesaggio nordico, in apparenza incorruttibile, è nella realtà definito e strutturato, quindi corrotto, dalle geometrie create dalle impronte degli sciatori.
Il concetto dell’uomo che gestisce, violenta, decide degli spazi naturali viene evocato anche da
Elger Esser, dove il paesaggio scompare nella propria riconoscibilità rimanendo soltanto come segno remoto e astratto, e da
Armin Linke, autore di una foto dello
Ski Dome di Tokio, enorme ricreazione artificiale per il pubblico intrattenimento del clima nordico.
Splendido il video di
Orit Raff,
Palindrome. Qui, in un territorio polare, l’immagine dell’uomo -intento ossessivamente ad accumulare coperte per la sopravvivenza- è accostato per contrasto, attraverso la reiterazione schizofrenica della dissolvenza, a quella del coyote, abitante naturale e a proprio agio delle zone nordiche. Più complesso ma altrettanto suggestivo il lavoro di
Stan Douglas, che indaga la colonizzazione dell’Islanda avvenuta a opera degli inglesi e degli spagnoli nel XVIII secolo. Douglas combina e sovrappone due produzioni video con due differenti audio, così da realizzare una visione e un ascolto disturbati e allucinati.
La serie fotografica del fuoriclasse
Olafur Eliasson è in verità una delle sue peggiori e scontate. Ma tant’è, la mostra risulta nel suo insieme di altissimo profilo, capace di confinare la possibilità di una critica nello spazio stretto e sterile di un esercizio retorico.