Nella Museum Hall più famosa di Londra, il passato racconta il futuro. La premonizione ci proietta, infatti, nel 2058, quando – secondo
Dominique Gonzalez-Foerster (Strasburgo, 1965; vive a Parigi e Rio de Janeiro) – una pioggia senza fine sommergerà la capitale britannica. E i suoi abitanti, sfollando dalle proprie abitazioni, troveranno rifugio nella hall della Tate Modern. L’arte diventa dunque rifugio, riparo, la nuova casa dove trovare conforto.
Ma cosa significa esattamente sentirsi a casa? Secondo l’artista non vuol dire necessariamente trovare le stesse cose che si hanno nella propria abitazione, cioè spostandosi con i propri bagagli. Significa piuttosto sentirsi circondati da affetto, accuditi. Sentirsi a casa non nel senso di far parte di una famiglia, ma di sentirsi al sicuro.
TH.2058, ora vero e proprio set cinematografico, diventa così l’esplorazione dello spazio potenziale del museo attraverso la rilettura di alcuni concetti indagati e sviluppati da Gonzalez-Foerster negli ultimi anni della sua ricerca. Il concetto di rifugio, ad esempio, che qui prende forma nei duecento letti a castello disseminati di libri, ripercorre l’idea che già sottendeva la serie
Chambres, una sequenza di ambienti, personali e domestici, spazi in cui l’artista ha sempre cercato un’immersione totale, relazionandosi con il luogo fisico piuttosto che con gli oggetti. L’ambiente, dunque, è metafora di natura e l’oggetto costituisce solo un filtro per comprenderla, per abitarla.
L’insieme degli elementi che richiamano il rifugio si arricchisce delle riproduzioni a grande scala delle installazioni della precedente
Unilever Serie, quella di
Louise Bourgeois, e delle sculture pubbliche di
Alexander Calder,
Henry Moore,
Claes Oldenburg e
Coosje van Bruggen. Ingrandite del 25% per azione della pioggia, solo evocata a livello sonoro, le sculture diventano un modo per riconsiderare il vocabolario esistente e permettere che le cose diano voce a significati diversi. Ed è così che il tempo presente di chi si avventura nella
TH s’impasta del passato del luogo, vestendosi di futuro. Una sorta di “proliferazione tropicale” dove, nel 2058, si amalgamano corpi alti e bassi, trasformati in materiale apparentemente organico. In divenire.
Il percorso è quindi condizionato da ciò che vediamo e da ciò che udiamo. Tra suoni, libri, l’eco di una bossa nova, fa da sfondo una proiezione di sequenze cinematografiche. È
The Last Film, la raccolta delle citazioni selezionate dall’artista per raccontare il rifugio, partendo dalle pellicole sperimentali di
Chris Marker e
Peter Watkins, sino alle immagini di fantascienza di
George Lucas. Altre scene di riparo, infine, ricavate da
Soylent Green di
Richard Fleischer e da
Toute la mémoire du monde di
Alain Resnais, raccontano di una fuga in cui l’uomo – lo sottolineano anche i frame di
Teorema di
Pasolini e l’apocalittica esplosione di
Zabriskie Point di
Antonioni – non sembra solo cercare protezione ma, prima di tutto, se stesso.
E se dopo la tempesta arriva la quiete, nella Turbine Hall compariranno allora anche i primi raggi di sole.
Somewhere over the rainbow.