La Haus der Kunst di Monaco di Baviera ha messo a disposizione l’intero pianterreno per l’esposizione delle 46 opere di Andreas Gursky (Lipsia, 1955), un’antologica che racconta il percorso dell’artista dal 1987 ad oggi. Thomas Weski, chief curator del museo, non ha badato né a spazio né a spese per organizzare questa mostra. Che è di un’incontestata e sfacciata bellezza. Le maxifotografie, all’interno del lindo e ampio spazio, sfidano il visitatore con tutta la loro forza espressiva, sia per i soggetti della rappresentazione che per l’impatto cromatico. Un effetto visivo, nell’insieme, che proprio per il gigantismo dei lavori arriva a scardinare i dispositivi delle teorie della visione, senza lasciarci possibilità di appello. Mentre in Jeff Wall, altro grande della fotografia contemporanea, la rappresentazione della realtà è accompagnata da una dura e palese contestazione -si pensi alle opere sulla guerra- in Gursky questo intento polemico è meno visibile. Ma anche se non in modo così diretto, un tipo di riflessione critica sul vivere contemporaneo serpeggia nel suo lavoro. Non è immediatamente percepibile perché l’impatto visivo gioca sulla meraviglia, che per prima arriva allo spettatore, seguita, solo dopo, dal disincanto provocato dal soggetto rappresentato. Ma è proprio in questo contrasto che risiede la forza delle sue opere, che vogliono comunicare, nell’atto di documentare, i tipi umani e i momenti del vivere collettivo, globalizzato e delocalizzato. In questo senso, se prendiamo in esame le opere che testimoniano il vivere contemporaneo e i suoi momenti collettivi (centri commerciali, luoghi di transito e aggregazione come stazioni, porti o arene per spettacoli) Gursky, come un moderno entomologo, descrive il presente umano colto nelle sue manifestazioni rituali, nello sfrenato consumismo, nella società dello spettacolo. Per realizzare le sue opere
La ripresa implacabile dell’occhio dell’artista, che annota i comportamenti di massa e in seguito li seziona e rielabora al computer, determina infine l’immagine di un individuo che vive nell’indistinto identitario. Prendiamo ad esempio l’immagine Copan (2002), dove il singolo massificato vive anche in abitazioni massificate: la fotografia rappresenta la facciata dell’edificio realizzato dall’architetto Oscar Niemeyer a Rio de Janeiro, immagine che è stranamente simile a Stateville, Illinois (2002), in cui si vedono i detenuti di un carcere di massima sicurezza. La costante delle due fotografie è che tutti vivono in gabbia. Ma gli scatti in mostra non sono solo di luoghi ad alta concentrazione umana, ma anche di spazi vasti e privi di presenza, anche più inquietanti perché irreali.
Un’intera sala è dedicata alla serie James Bond Island (2007). Sono isole atlantiche disposte in un crescendo verticale colte in una luce plumbea, ma nitida, e propongono un paesaggio inedito, che mette in forse l’esistenza stessa di un simile luogo. Forse solo un regista estremo come Werner Herzog potrebbe avere avuto esperienza di posti simili, freddi, inumani. Prada II (1997), dai colori e dalle luci tenui, mostra invece gli scaffali vuoti del negozio che attendono, ansiosamente, la merce da esporre. Il contrario di quest’ultima è l’opera 99 cent II (2001), pagata da un collezionista anonimo 3.346.456 dollari, che rappresenta un discount americano dove la merce è esposta fino alla saturazione di ogni spazio.
Gursky non risparmia nessuna forma vivente dalla massificazione e mercificazione contemporanea. E allora l’allevamento raffigurato in Fukuyama (2004) e l’enorme coltivazione di Beelitz (2007) diventano facilmente metafora di una condizione di vita che pervade tutto l’esistente.
claudio cucco
mostra visitata il 3 marzo 2007
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