Per comprendere pienamente la portata dell’opera di
Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) sull’arte contemporanea e sul rapporto fra arte e società, le osservazioni del filosofo francese Jean Baudrillard possono essere d’aiuto. Quando poi si tratta di
criticare una mostra dell’americano incentrata su ritratti, morte e, implicitamente, violenza, queste risultano uno strumento imprescindibile.
Ai due piani del Grand Palais sfilano ritratti di celebrità, potenti e qualche sconosciuto. Il pantheon di Andy Warhol è un club elitista ma, paradossalmente e genialmente allo stesso tempo, a nessuno è vietata a priori la possibilità di farne parte. Il paradosso prosegue, dal momento che lo stesso artista elimina la prova del suo intervento, in un’apoteosi d’indifferenza ripetitiva. Ma Warhol fa di più: elimina il senso della gestualità degli espressionisti astratti adottando la tecnica serigrafica, la riproduzione meccanica dell’atto creativo.
Tra il primo e il secondo piano sono esposte le copertine di “Interview”,
il magazine fondato dall’artista nel ‘69, e un estratto dal film
Empire. L’utilizzo di media come la rivista patinata e il cinema paiono una logica conseguenza dell’opera di Warhol. Che, in effetti, si dedicherà completamente al secondo per lungo tempo. Alla logica delle conseguenze prevarrà la logica degli affari e l’indiscutibile passione per i ritratti. Una scelta che resta profondamente coerente con il desiderio warholiano di fare businness art.
Nella seconda parte della mostra è esposta la
Big Electric Chair, esempio di come la genealogia dell’immagine attraverso la violenza e della violenza attraverso l’immagine si fondano e si confondano negli Stati Uniti.
Infine, attraverso l’esposizione di opere come
Ten Portraits of Jews of the Twentieth Century o la rivisitazione della
Madonna Sistina di
Raffaello, ci si trova di fronte alla prova inconfutabile che anche Warhol temeva la morte. Bob Nickas, nel descrivere una tendenza dell’arte americana che va dallo stesso Warhol a
Cady Noland, parla di unione della profondità psicologica e del distacco della superficie. Queste caratteristiche evocano costantemente morte e tragedia, e sono di per sé la prova che non ha quindi bisogno di ulteriori dimostrazioni. E la religiosità in Warhol, o la spiritualità a cui si riferisce Catherine Millet, è un argomento complesso e non riducibile alla dimensione narrativa.
Questa sorta di elegia della morte non fa che nutrire sospetti riguardo la nobilitazione di una manovra di carattere mediatico. D’altra parte, si può ritenere un successo quest’operazione, forse involontariamente tautologica nell’essere mostra di Warhol e dinamica sociale di cui egli stesso si sarebbe probabilmente servito per fare arte.