Fuerteventura è un’isola antica e selvaggia. L’origine vulcanica e la vicinanza alle coste africane (poco meno di 100 km) hanno contribuito a plasmare il suo paesaggio rendendolo unico. È bianca e luminosa, perlopiù pianeggiante, aspra e sferzata dal vento. Ma anche sfaccettata e multiforme, con la sua alternanza di luminose dune, rocce sanguigne e nere sabbie vulcaniche. Quest’isola delle Canarie, non molto conosciuta e ancora parzialmente risparmiata dall’invasione turistica di massa che caratterizza, ad esempio, Tenerife, è lo scenario di un progetto di mostra affascinante e ambizioso.
Deambulatorios de una jornada, en el principio y el projecto Tindaya, prodotta dal Centro de Arte Juan Ismael di Puerto del Rosario e curata dal critico spagnolo Nilo Casares, indaga con rigore e rara attenzione il rapporto tra naturale e artificiale, tra ecosistema e intervento antropico, ma anche, in modo più specifico, tra arte e paesaggio. Il tema non è nuovo, anzi, possiamo addirittura testimoniare un certo trend che sta riportando in auge, negli ultimi anni, la cosiddetta arte ambientale, sia nello spazio naturale che in quello urbano, ma il progetto in questione si distingue per la capacità di raccordare presente e passato, riannodando le fila di una ricerca artistica le cui radici affondano molto indietro nel tempo.
Punto di partenza per la riflessione è il progetto -mai realizzato- di Eduardo Chillida (San Sebastián, 1924 – 2002) per la montagna Tindaya, luogo suggestivo e sacrale, avvolto nella leggenda (gli indigeni gli attribuivano proprietà magiche).
Lo scultore spagnolo aveva infatti scelto questo luogo per la realizzazione della sua opera somma, una grande stanza (50 m per lato circa) nel cuore della montagna, raggiungibile tramite un lungo tunnel e caratterizzata da due aperture verticali da cui far filtrare la luce. Presso il Centro Juan Ismael, dove trova alloggio la prima sezione della mostra, l’opera viene illustrata attraverso schizzi progettuali, rilievi e una grande maquette in legno. Accanto all’opera dell’artista basco, nelle due sale del museo sfilano fotografie, video e documenti di note opere di Land Art di artisti internazionali (Christo e Jean Claude, Hamish Fulton, Nancy Holt e Robert Smithson), ma anche quelle meno conosciute di Fernando Casás e del gruppo cileno Corporación Cultural Amereida.
Ma il cuore del progetto, la sua parte “attiva”, come la definisce il curatore, è costituita da sette grandi installazioni create ex-novo per l’isola da altrettanti artisti contemporanei, visitabili con un viaggio, come suggerisce il titolo, della durata di una giornata. Le opere, molto diverse tra loro per forma, dimensione, tematica e tecnica utilizzata, suggeriscono tuttavia una riflessione su un evidente cambio di atteggiamento degli artisti nei confronti del territorio. Se la Land
L’italiano Luigi Pagliarini, che ha installato il suo Communication Graveyard nell’aeroporto abbandonato di Los Estancos, riflette sul problema dell’obsolescenza e del mancato riciclo delle apparecchiature tecnologiche, costruendo un cimitero elettronico, una distesa di 512 lapidi che riproducono la forma dell’isola di Fuerteventura disseminate di resti di plastica e silicio, metallo e cavi, chip e antenne. Accosta natura e tecnologia anche il croato Darko Fritz, che piazza la sua installazione orticulturale (2220 cactus su una distesa di lava scura) su una collina incidendola con la scritta 204_NO_CONTENT, uno dei tanti messaggi di errore inviati dai server durante la navigazione in Internet. In parte performativo il progetto del cileno Juan Castillo, presente con una grande scritta su un rilievo di Tiscamanita (Tu imagen) e con un camion itinerante per l’isola che rimanda, su un grande schermo retroproiettato, le risposte della gente comune alla domanda “Cos’è l’arte?”.
Di ispirazione prettamente sociale, e causticamente ironica, i progetti degli spagnoli Oscar Mora e Santiago Cirugeda, entrambi incentrati sul tema dello sfruttamento selvaggio del territorio e dell’invasione non regolata del turismo anglosassone e tedesco. Il primo, con la sua Wir arbeiten für Sie costruisce una specie di torre di avvistamento in tubi innocenti nell’area di Costa Calma, dotandola di ironici pannelli stile “lavori in corso” scritti rigorosamente in tedesco, mentre il secondo (Fantasma Urbano) interviene nella zona di El Cotillo (una delle spiagge più famose e frequentate dell’isola) simulando un progetto di recupero del territorio al fine di bonificarlo da interventi sconsiderati e finanche dall’eccesso di turisti stranieri. Francis Naranjo, infine, rievoca la natura vulcanica dell’isola ricoprendo di carta argentata un malpaìs a La Oliva, riproducendo una suggestiva colata di lava aliena che di notte rimanda bagliori rossastri (Metallic).
Fanno parte di questa seconda parte della mostra anche altri due progetti di inafferrabile collocazione geografica. Eva & Franco Mattes, alias 0100101110101101.ORG hanno scelto di lavorare su un’isola virtuale, ricostruita dentro l’ambiente online Second Life, rimettendo in scena una famosa opera di Joseph Beuys (7000 Oaks, 1982), mentre gli uruguayani Brian Mackern e Fernando Lagreca -protagonisti di un suggestivo concerto durante l’inaugurazione- hanno inciso una colonna sonora per il viaggio tra le opere. Da ascoltare guardando le dune scorrere fuori dal finestrino.
link correlati
Il progetto Tindaya
Nilo Casares
The Communication Graveyard, di Luigi Pagliarini
Darko Fritz
Francis Naranjo
Santiago Cirugeda
Eva e Franco Mattes
Brian Mackern
Fernando Lagreca
valentina tanni
mostra visitata il 16 e il 17 marzo 2006
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