In un vasto spazio sotterraneo -2000 i metri quadri- quasi atavicamente s’incontrano, nel segno dell’arte, mondo latino e mondo germanico. Nel vasto grembo della fortezza di Magonza, città indissolubilmente legata alla cultura per aver dato i natali a Johannes Gutenberg, in occasione della Kultursommer della Renania-Palatinato e in collaborazione con le Università di Magonza e di Bologna, è stata allestita una mostra che presenta vis-à-vis sette artisti tedeschi e sette artisti italiani. Se gli artisti tedeschi (locali, specifichiamo in una valenza esclusivamente geografica) hanno in comune la provenienza dall’Accademia di Magonza, quelli italiani sono stati scelti e per la loro giovane età –tutti sotto i quaranta- e per il loro brillante curriculum espositivo. Un incontro tra due paesi all’insegna dello sconfinamento, del dialogo oltre ogni frontiera, non auspicando ma praticando un’Europa fatta non solo di merci ma anche di idee, cultura, comunicazione.
Età, notorietà, fattori geografici. Al di là di questi sottili e volubili link, gli artisti in mostra rispecchiano nelle loro opere le loro eterogenee poetiche e scelte tecnico-formali: da Valerio Berruti, che con l’antica tecnica dell’affresco propone evanescenze della memoria a Christina Beldeanu, fantasiosa nel cogliere -come una novella Gnoli– macroscopie di un mondo bipolare segnato dai colori più opposti -il bianco e il nero- e legato-attraversato da sottili cavi. Da Francesco Bocchini, creatore di ironici mondi-meccanismo azionati a manovella a Katharina Fischborn in mostra con un’installazione che è un di disegno tridimensionale intricato come una ragnatela a Marco di Giovanni, sorta di Mario Bros dell’arte, creatore di interessanti installazioni con tubature arrugginite dal tempo.
E ancora: Bine H., le cui opere sono caratterizzate da un forte senso di straniamento; Alessandro Lupi, le cui spettacolari sculture fluorescenti sembrano un proseguo digitale della macchina smaterializzatrice dell’Enterprise di Star Trek; Verena Jacobs, creatrice di aniconici quanto oscuri paesaggi interiori; Ada Mascolo, con i suoi diafani acquarelli; Nikola Jaensch, i cui sottili ed eleganti collage tra diario e disegno parlano di mondi onirici quanto possibili. Fino a Paolo Picozza e i suoi vasti paesaggi bitumati; a Jörg Oetken -sorta di autostoppista nella storia dell’arte, in mostra con un fregio composto da circa 300 piastrelle che lo ritraggono nei panni del Dürer del celebre autoritratto- o a Antonello Viola, intriso di colore perfino nel nome, in mostra con un bel trittico che medita sulla presenza-assenza del pigmento. Infine Bettina van Haaren, i cui autoritratti sembrano segnati dall’incombenza di un inconscio che detta, associa e dissocia frammenti di corpo e di contesto.
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