Mentre
Robert Gober (Wallingford, Connecticut, 1954; vive a New York) è presente a Venezia con due opere (a Palazzo Grassi nella collettiva
Sequence 1 e al padiglione Italia della Biennale) lo Schaulager gli dedica una vera e propria retrospettiva. Con sculture, installazioni e disegni -quest’ultimi un’autentica rivelazione per la ricchezza visionaria e la documentazione tecnica che prefigura i progetti per le opere plastiche- che lo presentano in tutta la sua portata artistica. E, va sottolineato, un pregevole catalogo ragionato delle opere comprese nel periodo dal 1979 al 2007. Un approccio che ricalca esattamente quello adottato nel 2005 per la grande mostra dedicata a
Jeff Wall. Inoltre, la curatela è firmata da Thedora Vischer insieme allo stesso Gober, una connessione piuttosto rara che, specie in Italia, si sostanzia talora in realtà private.
La messa in scena di oltre 25 anni di lavoro permette un confronto teorico senza precedenti con l’opera dell’artista statunitense. Punto di partenza è senz’altro la collezione del museo, che dal 2003 possiede una delle sue più celebri installazioni,
Untitled (1995-1997), allestita in maniera permanente in un’ampia sala dello stesso museo.
Ciò dimostra come si possa partire anche da un singolo pezzo, quantunque importante, per giungere a costruire un progetto rigoroso di mostra. Presentata in questa maniera, l’opera di un artista come Gober ne esce arricchita quanto a spessore teorico e complessità, al di là della mera e presenza sensazionalistica, che ne restituisce un’immagine limitata e parziale. Una mostra sistematica quindi, che considera seriamente l’artista “in oggetto”. Passando in rassegna i lavabo, le gambe, i pezzi di corpi umani incustoditi e collocati in ogni angolo delle sale, gli oggetti quotidiani, che acquistano una dimensione di pura follia, le lampadine, che nella loro naturale ambiguità diventano segnali di luce ma anche di pericolo, è come se stessimo sfogliando un atlante che ricostruisce i paesaggi inquietanti e malvagi della nostra società.
Al termine del percorso, colmo di cose umane e non umane abbandonate dalla vita stessa, il visitatore avrà la sensazione di esser stato ammaliato. È l’apoteosi del perturbante. Nelle stanze da letto, le pareti sono tappezzate da carte da parati solo apparentemente rassicuranti. Infatti le raffigurazioni sono piccoli organi genitali o corpi assopiti che si mimetizzano nell’ornamento. Anche i boschi, che ricoprono altre pareti, rappresentano un immaginario sessuale ripetuto all’infinito, ma in realtà anch’esso scomparso. Costante metafora delle opere di Gober è l’assenza. Un’assenza sostanziale, quella del corpo che subisce una mutazione, come
“il cuscino di cera con peli, metà uomo e metà donna”.
Se alla scultura e alle installazioni è stato concesso ampio spazio, va detto che in mostra si trova anche della pittura. Una pittura che è pura metamorfosi in atto. Un quadro in movimento, da non confondersi con uno schermo sul quale sono proiettate delle immagini. Quadro mutante come il corpo, costante filo rosso di ogni lavoro di Gober.