Già presentata la scorsa primavera presso il Museum of Contemporary Art di Chicago, la retrospettiva dedicata a
Rudolf Stingel (Merano 1956; vive a Merano e New York) offre una panoramica sugli ultimi vent’anni della produzione dell’artista, assicurandole un tono di ampio respiro. L’ennesima fuga di cervelli -o di “pennelli”- transoceanica fa riflettere ancora una volta sul ferruginoso sistema italiano, che investe poche energie nel sostegno agli artisti. È doveroso comunque notare che il Mart aveva già dedicato all’artista una mostra nel 2001, cogliendolo a metà carriera. Dopo aver esposto in Europa e in diversi musei statunitensi, Stingel ha ricevuto un riconoscimento dalla città di New York nel 2004, quando gli era stato commissionato il rivestimento del Grand Central Terminal, e nel 2006, quando è stato incluso nella prestigiosa Whitney Biennial.
Questa volta, col sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e a cura di un altro italiano all’estero, Francesco Bonami, il Whitney gli dedica un intero piano, permettendo agli immensi lavori di Stingel di galleggiare liberamente nelle sale. L’ascensore si apre e lo spettacolo che si presenta lascia interdetti: siamo dentro l’opera d’arte. Le pareti dell’anticamera sono ricoperte di pannelli argentati, come fossero foderati di carta stagnola, e sulle superfici compaiono segni, scritte, incisioni e un paio di monetine da
one cent incastonate nel polistirolo retrostante. Un lampadario in cristallo a candele rende l’atmosfera drammatica e sospesa.
L’opera attrae l’occhio nell’osservazione attenta dei particolari, per leggervi intrappolata la memoria di centinaia di persone transitate in quel luogo. Un immenso libro delle firme, sul quale lo spettatore è invitato a lasciare il segno del proprio passaggio come prodotto della sua libertà espressiva. Un gigantesco
all over dove l’individualità mistica imposta dalla pittura espressionista astratta lascia il posto a una collettività di azioni. La manifestazione di un work in progress in cui il tempo, quello della mostra, esprime il suo scorrimento, corrodendo la pelle argentea dei muri e trasformando la sala degli specchi in un gioco di riflessi deformi.
Tra nomi, citazioni, fumetti e graffiti in miniatura, compare anche un
Fantozzi che strappa un sorriso.
In un’altra sala campeggiano quattro enormi tele in bianco e nero. Sono autoritratti dell’artista ispirati a fotografie di
Sam Samore, talmente realistici da tradire il medium oleoso e suggerire delle gigantografie, che comunicano un senso di melanconia e distaccata riflessione. Giocando ai confini della pittura, Stingel stupisce irritando e stuzzicando anche lo sguardo più distratto. Quattro pannelli bianchi in styrofoam acquistano la verticalità del muro e, come tele scavate da impronte di scarponi, evocano un ipotetico paesaggio lunare, in una versione decorativa di
Burri. Un termosifone giallo apparentemente reale rivela la propria diversa sostanza (policarbonato dipinto), mettendo oldenburghianamente in crisi la sua funzionalità.
Muovendosi fra tele e materiali industriali, astrazione e forma, Stingel spinge la pittura verso i suoi limiti estremi, scoprendovi un abisso di possibilità gestuali e di pratiche capaci di dissolvere le opere in sculture e spazio agito. Uno gioco a cui lo spettatore è invitato, con audace
nonchalance, a partecipare.
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ma come siete provinciali! citate sempre e solo cattelan, beecroft e vezzoli, ma mai rudolf stingel, grande italiano con la sfiga (ma solo per l'italia) di avere un nome straniero. italiani imbecilli fino all'osso...