Nel 1885 la regione africana corrispondente all’odierna Namibia diventa protettorato tedesco. In vent’anni, la costante migrazione di colonizzatori tedeschi si è resa insostenibile per la tribù autoctona degli Herero, costretta, attraverso frode e strozzinaggio, a perniciosi percorsi di indebitamento. Ormai ridotti senza terra, bestiame e casa, gli Herero insorgono nel 1904. A sedare la rivolta viene chiamato l’efferato Generale Lothar von Trotha. È l’inizio di un processo che, solo recentemente, gli storici hanno cominciato ad etichettare come il primo genocidio moderno. In poco più di un anno la popolazione degli Herero viene decimata, e quando il Sudafrica riesce ad impossessarsi della Namibia, nel 1914, solo un quarto dell’originario gruppo sociale è ancora in vita.
Una scelta audace, quella di William Kentridge: non è certo politically correct proporre un tema così spinoso per una mostra commissionata da un’istituzione in parte tedesca, concepita per essere esposta proprio nel cuore della Germania, un paese che –causa l’inemendabile orrore nazista- farebbe forse volentieri a meno di questa ulteriore macchia da portare a galla.
Kentridge trasforma lo spazio del Deutsche Guggenheim in un museo cartografico intriso di memorie storiche e suggestioni d’altri tempi, mettendo in scena, dentro la sua “camera oscura” o “scatola nera”, le dinamiche di repressione, colpa, espiazione che legano vittima e carnefice.
Cartine, documenti ed oggettistica d’epoca vengono avvolti in un gioco di luci teatrale. Su riproduzioni di paesaggi vergini l’artista traccia in rosso lo sfruttamento futuro: macchinari dall’incomprensibile utilità che raccontano il giogo con tratto fiabesco, poetico e crudo. Lo sguardo ignaro e smarrito di chi subisce la colonizzazione sembra stagliarsi contro i muri della stanza, sbucando tra gli angoli come un fantasma ridesto.
Sui documenti (infinite liste contabili scritte a mano, copiate da originali trovati all’Archivio Nazionale della Namibia), Kentridge infierisce con il carboncino ritraendo il genocidio, senza veli. Centro della mostra è un teatrino meccanico. Lo copre una proiezione continua, montaggio di tutto il materiale in esposizione, mentre all’interno si muovono piccole sagome create a partire da oggetti comuni. Una lampada da ufficio o un compasso portano in scena il concetto freudiano di Trauerarbeit, l’elaborazione del lutto. Il teatrino non è una rappresentazione del massacro degli Herero, bensì di ciò che l’evento tragico ha implicato: brutalità, violenza, smarrimento, perdita, disperazione, trauma. Non un teatro della narrazione, dunque, ma piuttosto un luogo della consapevolezza, della memoria elaborata, della ri-scrittura lucida e lirica.
micaela cecchinato
mostra visitata il 10 novembre 2005
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