Sono innumerevoli i riferimenti che ci si può divertire a riconoscere nei video di Steve McQueen: dai classici della cinematografia -da Dziga Vertov a Jean Vigo, da Buster Keaton a Carl Dreyer, da Robert Bresson a Billy Wilder e Bob Raffelson- fino alle video-performances degli anni Sessanta e Settanta -Nauman, Acconci, Graham- passando per la fotografia di Rodchenko e Man Ray. Può sembrare una lista infinita e per alcuni versi fuori misura rispetto ai soli dieci anni di attività del giovane regista britannico. Si tratta tuttavia di nomi ripetutamente tirati in ballo dalla critica più agguerrita nel tentativo di dare una veloce paternità ad un talento onnivoro che in pochi anni è riuscito ad affermarsi nel mondo, nelle più prestigiose sedi museali e rassegne di arte contemporanea; non ultima l’undicesima edizi
McQueen aveva presentato allora la video-istallazione Caribs’ Leap/Western Deep, prodotta in collaborazione con la Fundació Tàpies ed oggi per la prima volta a Barcellona, insieme agli altri ormai celeberrimi lavori Bear, Just above my head ed Exodus.
Il suicidio di massa degli indigeni dell’isola caraibica di Granada, nel 1651, come gesto estremo di resistenza alla colonizzazione francese, diviene in Caribs’ Leap il pretesto per ripensare poeticamente la caduta di un’umanità marginale su un indistinto fondo luminoso che ne neutralizza disuguaglianze e appartenenze. La forte rivendicazione politica sottesa alla scelta di questo soggetto si fa più esplicita in Western Deep, video in cui McQueen costruisce una partitura filmica dal ritmo serrato. Rumori assordanti e improvvisi bagliori di luce squarciano dolorosamente la silenziosa attesa al buio in uno spazio claustrofobico. L’incalzare ossessivo di immagini dai tunnel sotterranei di una miniera può solo lontanamente dare idea delle dure condizioni di lavoro dei minatori. Il riferimento è alle più estreme forme di violenza cui può essere sottomesso l’uomo: il lavoro servile e la dominazione
Bear (1993-94) mette in scena la lotta fra due uomini in un’ambigua alternanza di gesti di aggressività e sotteso erotismo. L’interazione fisica con le immagini proiettate è accentuata in questo caso dalla totale assenza di suono. È il respiro dello spettatore ad interrompere la dimensione di sospensione cui quella danza d’amore e di morte sembra unicamente potersi affidare.
Più politicamente orientati, ma in maniera però diametralmente opposta, sono i due video Just above my head (1996) ed Exodus (1992-97). Il primo fa riferimento all’omonima opera letteraria di James Baldwin, in cui la presenza africana nera viene percepita come pericolosa minaccia nell’America dei Wasp. Il secondo risolve questa contraddizione in chiave ironica: due giovani dandy trasportano palme per un’affollata strada londinese. È il ritorno alla terra promessa cantato da Bob Marley –Exodus è anche il titolo di un suo disco- qui rivisitato con effetti di grande humour e di inaspettato capovolgimento di punti di vista sulla condizione degli immigrati in Europa.
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