Nel panorama espositivo parigino del 2005, quella organizzata da Jean Clair sarà ricordata, senza dubbio, come una delle mostre dell’anno. Alcune opere, da sole, valgono la visita. Tra queste gli immensi Friedrich, la scultura-cubo di Giacometti, un paio di cupi Redon. Tuttavia, per gli amanti dell’arte contemporanea e i divoratori di mostre, a colpire è soprattutto il dispositivo specifico che sottende le opere nel loro insieme. In breve, si tratta di una mostra collettiva che si propone di ricostruire la storia di un concetto –quello di malinconia– e delle sue trasformazioni nel corso della storia: dalle origini divine greche alla fredda sintomatologia elaborata dagli psicologi. Jean Clair sembra rifarsi metodologicamente a quella che oggi viene chiamata “storia delle idee”, raccogliendo un corpus di opere attorno ad un’idea, appunto. Cosa, meglio della malinconia, si presta a una simile manovra di trasposizione in immagini?
I rischi però non mancano. Il primo è quello, inaggirabile, di ridurre le immagini a mere illustrazioni del concetto. Come se il curatore avesse in un primo momento scritto un libro sul soggetto, di cui le opere in mostra non fossero altro che la corrispettiva sezione visiva, il supplemento illustrativo che ne supporta gli argomenti critico-teorici. La sensazione insomma è che nessuna opera esposta sia essenziale, e che ognuna potrebbe essere dunque sostituita senza nuocere all’insieme. Oppure che, dello stesso artista, si sarebbe potuta scegliere qualsiasi altra opera: com’è accaduto per de Chirico, presente con due lavori poco significativi, provenienti, manco a dirlo, da collezioni private.
Colpisce inoltre la scelta di impostare la mostra quasi esclusivamente sulla pittura. Poche le eccezioni. Ad esempio? Un pipistrello imbalsamato o gli strumenti di misurazione scientifici che compaiono già nella celebre incisione di Dürer. La mostra risulta così, propriamente, una storia dell’evoluzione del concetto di malinconia in pittura.
E’ tuttavia nell’ultima sala –quella consacrata al XX secolo– che si annidano le difficoltà più spinose. Una piazza metafisica di de Chirico da una parte, una scultura gigante di Ron Mueck in un angolo, un aereo in piombo di Anselm Kiefer in mezzo alla sala, accanto ad un paesaggio di Edward Hopper (le foto di David Nebreda sono per fortuna esposte altrove). Chiude la sala –e la mostra– una scultura di Claudio Parmiggiani, collocata davanti l’uscita, quasi più un ostacolo da superare che un’opera da contemplare. La malinconia è presentata, nel pannello esplicativo, come “il paradosso di un nuovo progetto storico rivoluzionario”. La ricerca di continuità col passato si spezza così con il XX secolo, di cui viene offerta un’immagine quanto meno distorta.
Il tuffo nell’arte contemporanea non è solo incompleto (sarebbe puerile esigere il contrario, da Jean Clair poi…) ma del tutto confuso e superficiale. Seguendo il filo del rapporto tra malinconia e macchinismo, ad esempio, si sarebbero potute esporre le opere dada degli anni venti o le ricerche concettuali, dove l’insistenza sulle classificazioni permette alla malinconia di manifestarsi sotto forme inedite.
Non si mette comunque in dubbio la perspicuità di Jean Clair, sebbene le sue esternazioni sull’arte contemporanea non siano sempre condivisibili. Il catalogo è del resto esemplare e ben strutturato, strumento indispensabile e probabilmente la migliore pubblicazione sull’argomento. La mostra ha inoltre avuto l’indubbio merito di rilanciare un dibattito su un tema attualissimo, presente anche lì dove non ce lo saremmo aspettati (un esempio dal mucchio: Patrick Tuttofuoco). I dubbi, allora, concernono invece il dispositivo della mostra e il conseguente ruolo che le opere sono costrette ad assumere. C’è si un gran bisogno di concept exhibition che siano il frutto di una riflessione, e che si distinguano da quelle confuse mostre collettive, ma bisogna anche tener conto della centralità dell’opera e dell’artista, nonché della loro resistenza a servire da illustrazione ad una ordinata traiettoria storicista.
riccardo venturi
mostra visitata il 5 gennaio 2006
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Perchè, le mostre non si possono fare con opere di privati?
Dada non è molto malinconico
meglio la nuova oggettività di un Dix che in effetti c'é
e Tuttofuoco non è certo al livelo di Kiefer
Mueck
e meno male che qualcuno ha il coraggio di essere opinabile